Ciò che si coglie a prima vista osservando le alture dal mare sono i forti e le mura di Genova che punteggiano i crinali a distanze regolari. In parte ancora perfettamente conservati, i forti costituiscono le roccaforti dell’ultima cinta muraria, punto d’arrivo di un percorso avviato quasi mille anni prima, quando la città comincia a dotarsi di mura difensive. Vengono realizzati ben sette anelli in epoche successive, seguendo la crescita del tessuto urbano e impiegando tecnologie costruttive diverse a seconda delle epoche. Per quanto la catena più facilmente identificabile sia quella che si snoda sui monti, esistono ancora e sono rintracciabili in città – per quanto inglobati dallo sviluppo urbano – tratti di mura di Genova appartenenti alle cerchie precedenti.
I forti invece esistono tutt’oggi, importanti e suggestive testimonianze storiche affacciate sulle vallate dall’alto dei crinali. Sono le fortificazioni che vengono erette da metà Settecento in poi, con la consapevolezza che le “Nuove Mura di Genova” sono assolutamente insufficienti alla difesa.
I forti distaccati sono: Forte Diamante, Forte Quezzi, Forte Richelieu, Forte Santa Tecla, Fratello Minore (il Maggiore è stato demolito), Forte Puin, Forte Belvedere, Forte Crocetta, Forte Ratti, Forte S.Martino, Forte S.Giuliano. I forti lungo la cinta sono: Sperone, Begato, Tenaglia, S.Giorgio (ricostruito nell’Ottocento e oggi sede dell’Istituto Idrografico della Marina), S.Benigno (demolito in occasione dell’apertura della nuova viabilità di ponente).
L’apparato difensivo contava anche diverse torri, abbandonate nel ‘500 perché inutili alla coeva logica difensiva, e recuperate nell’Ottocento, utilizzate come avamposti di difesa e di avvistamento. Ancora oggi ne esistono alcune, come Torre Quezzi e Torre S.Bernardino.
MURA DI GENOVA: LA PRIMA CINTA
Già in epoca romana Genova possedeva una cinta muraria a scopo difensivo, situata intorno all’allora nucleo cittadino, ossia il castrum sviluppatosi sull’oppidum preromano della collina di Castello, come testimoniato da Tito Livio quando registra l’ordine di ricostruzione della città appena distrutta da Magone, fratello di Annibale, durante le guerre puniche. L’ordine viene impartito da Roma al pretore della Gallia Cisalpina Spurio Lucrezio nel 205 a.C.. Per quanto non siano rimasti tratti integri di queste antichissime mura, alcuni imponenti blocchi di pietra rinvenuti nei paramenti murari di edifici della collina di Castello molto probabilmente potrebbero provenire dai resti di tale cinta. La perentorietà dell’ordine di ricostruzione illustra l’importanza strategica che Genova rivestiva già allora dal punto di vista militare e commerciale. Purtroppo la scarsità di notizie lasciate dagli scrittori latini e medievali a riguardo impedisce di sapere con certezza il tracciato di questa cinta, sebbene gli studiosi abbiano tentato di darne un’idea: posto che l’oppidum sorgesse sulla collina di Castello, dopo la distruzione Spurio Lucrezio procedette a ricostruire l’abitato spostandone il centro nell’adiacente piana a nord, proprio sull’insenatura che costituisce il nucleo primitivo del porto. Qui, nella zona Canneto-Giustiniani-S.Bernardo, si rinvengono le tracce regolari delle insulae romane. Le mura dovevano necessariamente snodarsi tra queste due aree, ed è abbastanza certo che vi fossero tre punti fortificati: sulla collina di Sarzano nella zona S.Croce-S.Silvestro doveva esserci una prima fortificazione dotata di tre torri – di cui una maggiore delle altre – mentre una seconda fortificazione doveva essere presso S.Maria di Castello (tanto che nelle sue mura ancora si individuano blocchi di pietra attribuibili a tale costruzione) e una terza in zona Madonna delle Grazie. In periodo altomedievale l’abitato in pianura fu abbandonato e la gente si rifugiò nuovamente sulla più sicura collina, dove le fortificazioni proteggevano meglio dalle scorrerie saracene e il dirupo a mare di Sarzano costituiva una difesa naturale.
SECONDA CINTA: LE MURA DEL 935
Sulla prima cerchia di cui si hanno invece testimonianze evidenti esistono due differenti letture: una fa risalire le mura di Genova al 935, anno in cui la città subì un violento saccheggio da parte dei Saraceni, che sbarcarono in porto nottetempo con 200 galee e misero a ferro e fuoco la città uccidendo molti degli abitanti e rapendo donne e bambini. Una seconda lettura data la cerchia a metà dell’800 d.C., e suppone che la costruzione sia stata finanziata almeno in parte dai sovrani Carolingi, motivo per cui viene detta anche cinta carolingia. Il tracciato – che ricalcava parte di quello preesistente in zona Sarzano – percorreva Via Ravecca arrivando al piano di Sant’Andrea, scendeva fino a S.Lorenzo e lungo Via Tommaso Reggio (dove si possono individuare nei muri dei palazzi tracce della cinta) e Piazza invrea giungeva in Banchi. Proseguiva verso L’attuale piazza S.Giorgio, dove era la porta di S.Torpete, e finiva presso il dirupo di Sarzano. Le altre porte che si aprivano in queste mura erano: la porta Castri, cioè di Castello, in zona Sarzano-S.Croce; porta Soprana (anticamente Superana, dicitura latina) o di S.Andrea, sul piano omonimo, così chiamata per la sua posizione sopraelevata, che metteva in comunicazione col levante; la porta di Serravalle, in zona S.Lorenzo; la porta di S.Pietro in Piazza Banchi, che si apriva verso ponente e doveva trovarsi in corrispondenza dell’archivolto che ancora adesso mette in comunicazione Banchi con Piazza Cinque Lampadi. La porta fu cancellata con le demolizioni dovute alle sistemazioni urbanistiche cinquecentesche.
LE MURA DEL BARBAROSSA (1155-1159)
Terminati i periodi bui delle invasioni barbariche e delle incursioni di pirati, Genova era rifiorita grazie al commercio, il che aveva portato ad un aumento della popolazione e all’espansione urbana. Il suo ruolo politico si era affermato con la trionfante partecipazione alle crociate, mentre la sua flotta sempre più abile e potente navigava senza preoccupazioni nel Mediterraneo, temuta dagli stessi pirati. Fu quindi nel pieno dello sviluppo civile che si manifestò la necessità di erigere una nuova cerchia muraria.
Nel 1155 infatti l’imperatore Federico Barbarossa scese in Italia determinato a ridurre all’obbedienza i Comuni che si arrogavano l’indipendenza dal potere imperiale, mettendo a ferro e fuoco le città via via sconfitte, tra cui Tortona e Milano, non distanti da Genova.
La città già da lungo tempo godeva di una larga autonomia giuridica – concessale da un diploma di re Berengario II nel X secolo – grazie alla quale era giunta alla costituzione della Compagna Communis, ossia dell’istituzione comunale (fine X secolo). Si trovava dunque in una posizione favorevole, tanto che i suoi ambasciatori (tra cui l’annalista Caffaro), inviati alla Dieta di Roncaglia convocata dal Barbarossa (1154), ricevettero soltanto la richiesta di fedeltà all’impero e non quella di sottomissione. Ciononostante, il governo ritenne più prudente erigere nuove e più forti mura in caso di un assedio dell’esercito imperiale. Le mura di Genova dette del Barbarossa (poi divenute “murette” per la loro dimensione ridotta quando fu costruita la cinta successiva) cinsero una città decisamente cresciuta, che aveva superato i confini del castrum in cui la popolazione si era rifugiata nell’alto medioevo, era tornata ad abitare la civitas romana e si era estesa lungo la costa verso ponente con un burgus nella zona di Campetto, delle Vigne e del Campo.
La costruzione iniziò nel 1155, ma il temporaneo diminuire delle probabilità di attacco da parte dell’imperatore fece rallentare i lavori fino a interromperli nel 1158; ripresero con sollecitudine non appena la minaccia si fece nuovamente imminente: stando agli Annali del Caffaro, le nuove mura di Genova vennero erette con il contributo della popolazione tutta, compresi donne e bambini, in uno sforzo eccezionale che permise di fare in 8 giorni il lavoro che normalmente si sarebbe fatto in un anno, e in soli 53 giorni di terminare la cinta; i lavori significarono un notevole dispendio economico che coinvolse clero e nobiltà nello stanziamento di fondi, e il perfezionamento dell’opera proseguì fino al 1163 con l’escavazione di fossati al Castelletto e a Luccoli, a protezione delle torri di avvistamento.
Partendo da Porta Soprana, il tracciato – che si snodava in modo da sfruttare la presenza di corsi d’acqua quali difese naturali – da un lato percorreva Via del Colle (questo tratto è tuttora esistente e visitabile) e includeva la chiesa di S.Salvatore in Sarzano, mentre dall’altro andava verso la collina di Piccapietra e quella di Luccoli, per scendere alle Fontane Marose e proseguire fino a Portello, salire al Castelletto, scendere nuovamente lungo la zona del Carmine e giungere alla costa in corrispondenza di Via del Campo. Non c’era bisogno di grandi fortificazioni alla base della collina di Sarzano poiché questa si ergeva a strapiombo sul mare creando una barriera naturale. Le nuove mura di Genova si estendevano per oltre un chilometro e seicento metri, così che l’area urbana protetta arrivò a misurare ben 55 ettari, ponendo Genova tra le città più grandi della penisola.
Le porte erano adesso cinque: porta Soprana, rimaneggiata e migliorata; la gemella porta di Santa Fede o Sottana (o dei Vacca, dal nome della famiglia che in quella zona aveva possedimenti), edificata con lo stesso schema, due torri merlate con pianta a ferro di cavallo unite da un grande arco a sesto acuto, si trova in fondo a via del Campo e metteva in comunicazione col ponente. Fortemente alterata nei secoli e parzialmente inglobata nel tessuto abitativo, è l’unica sopravvissuta della cinta del 1155 oltre a Soprana, e venne restaurata per la prima volta nell’Ottocento cercando di riportarla all’aspetto originario; Porta Aurea, identica alle prime due poiché costituiva, come quelle, uno dei tre principali accessi alla città e aveva dunque carattere monumentale, si apriva verso la media Val Bisagno: col tempo fu inglobata nel tessuto urbano che si sviluppò su di essa, riducendola ad un mero voltone di collegamento tra strade e lasciandone visibile il solo fornice ogivale; andò persa definitivamente con le grandi demolizioni operate negli anni sessanta del Novecento per dare vita al progetto di rinnovamento di Piccapietra. Delle ultime due porte, quella di S.Agnese, che si apriva a nord verso Carbonara, e quella di S.Germano che conduceva all’Acquasola e all’alta Val Bisagno, non è rimasto nulla se non tracce documentarie. Entrambe prendevano il nome da chiese ad esse adiacenti.
Attraversati incolume i secoli, Porta Soprana, con la sua posizione centrale, è oggi la porta più famosa di Genova, seguita dalla gemella Sottana; recuperato tutto il suo splendore dopo il restauro, è uno dei simboli della città. Non appena conclusa la cinta, vennero sistemate sulla porta due lapidi ancora presenti: quella sul pilastro meridionale nomina i Consoli in carica all’epoca e rivolge un monito a chiunque si avvicini alla città con intenzioni bellicose, predicendogli rovina e sconfitta; quella sul pilastro settentrionale indica l’anno di erezione della porta stessa. Su di essa è possibile individuare due colonne classiche diverse tra loro: la cosa non deve meravigliare perché nel medioevo era consuetudine procedere al riuso di elementi architettonici recuperati da costruzioni antiche abbandonate, risparmiando tempo e denaro. La tipologia semicircolare delle torri invece è mutuata dalle architetture orientali e testimonia le influenze dovute agli intensi traffici commerciali. Quando vennero costruite le mura cinquecentesche l’ingresso di levante fu spostato ma la porta non fu demolita: così, come per le altre porte che avevano perso la loro funzione, il tessuto abitativo finì per svilupparsi su di essa e sul tratto di mura di via del Colle. Questo fino a fine Ottocento, quando gli interventi urbanistici liberarono la porta dalle case ad essa addossate e atterrarono le mura che si dipartivano verso nord. Il restauro del 1992 ha provveduto infine a ripristinare l’agibilità del tratto rimasto di “murette” recuperando anche il camminamento sopra di esse.
Oltre alle porte, le mura di Genova erano dotate di un apparato difensivo che consisteva in torri di avvistamento (tra di esse quella posta più in alto era la torre di Castelletto) e bastioni fortificati, oltre che della rocca di Sarzano. Erano inoltre presenti diverse porte minori, dette “portelli”. All’interno dell’urbe così protetta si erano nel frattempo moltiplicate le Compagne, arrivando a otto: Castello, Piazzalunga, Maccagnana, S.Lorenzo, Porta, Soziglia, Porta Nuova, Borgo di Pré.
QUARTA E QUINTA CINTA: MURA DEL 1276 E 1320-1346
Per tutto il XII e XIII secolo continua l’espansione economica genovese attraverso le attività mercantili, i traffici, l’attività armatoriale, con conseguente aumento demografico e crescita urbana ai lati del nucleo cittadino. A partire dal 1276 si procedette a racchiudere entro le mura anche la penisola del Molo (quarta cinta), fornendo così una maggiore protezione sul fronte mare: ecco sorgere dunque le cosiddette mura della Malapaga, che si estendevano lungo la lingua di terra fino alla Torre dei Greci. Esse prendevano il nome dalle prigioni della Malapaga, dove venivano rinchiusi i debitori insolventi. Sullo scorcio del Duecento tuttavia cominciò a delinearsi un certo ripiegamento dell’economia contestualmente a una progressiva disgregazione dell’unità politica cittadina a causa di sempre più frequenti lotte intestine tra famiglie nobili. La scarsa compattezza interna portò la città a dover fronteggiare un pericolo incombente: lo scontro con Lucca, il cui signore Castruccio Castracani muoveva dritto su Genova dopo aver occupato buona parte della riviera di levante, comprese Chiavari e Rapallo.
Di nuovo si rese necessario proteggere i borghi cresciuti al di fuori delle mura a est, in questo caso S.Germano, S.Stefano e Carignano. L’opera di edificazione avvenne nel periodo 1320-1327 (prima fase della quinta cinta) e cinse le località citate: il tracciato partiva dal Capo di Carignano e andava a innestarsi sulle mura preesistenti presso la torre di Luccoli. Vennero inoltre alzati una fortificazione in porto e un muro di cinta provvisto di fossato intorno alla Lanterna. Le porte nel nuovo tratto delle mura di Genova erano porta dell’Arco, porta dell’Olivella (nome derivante dagli uliveti della zona) e porta di Carignano, le prime due munite di torre. Porta dell’Arco fu ritoccata diverse volte prima del completo rifacimento cinquecentesco: sorgeva a metà dell’attuale Via XX Settembre, dove oggi si trova il Ponte Monumentale; rimasta nella collocazione originaria fino all’Ottocento, fu smontata nel 1896 per il completamento di Via Giulia (XX Settembre) e ricomposta presso le mura di Santa Chiara, precisamente in Via Banderali, a Carignano, dove si trova ancora adesso. Porta dell’Olivella – appena fuori dalla quale furono per secoli i campi di esercitazione dei balestrieri – è tutt’oggi visibile sotto la spianata dell’Acquasola, in via Bartolomeo Bosco, a breve distanza dalla chiesa dell’Annunziata di Portoria. Trovandosi vicina a porta dell’Arco, che coi rifacimenti del ‘500 divenne porta monumentale, perse la sua funzione e fu murata. I suoi sotterranei vennero prima adibiti a magazzini e poi riempiti di cadaveri durante la peste del 1657; venne riaperta soltanto con il rinnovo urbanistico ottocentesco, diventando di fatto voltone di comunicazione tra due vie.
Tra 1346 e 1358 si procedette a innalzare un ulteriore tratto murario che inglobasse i borghi a ponente (seconda fase della quinta cinta di mura di Genova), cioè il borgo di Pré e quello di S.Agnese, fino ad allora rimasti fuori dalle mura. Il tracciato scendeva da Castelletto a S.Agnese, saliva verso Carbonara, toccava la località di Pietraminuta dove venne eretto un bastione fortificato, proseguiva fino alla chiesa di S.Michele presso cui si apriva la porta di S.Tomaso, in zona Principe, escludendo dalla cinta il borgo di Fassolo. Altra porta di estrema importanza in questo nuovo tratto era quella di Carbonara, situata nella zona del Carmine in prossimità dell’attuale via Brignole Sale di fronte all’Albergo dei Poveri. Le mura così strutturate guadagnarono a Genova l’appellativo di Superba, datole da Francesco Petrarca, che visitandola rimase profondamente meravigliato dell’aspetto grandioso della città e la definì “superba per uomini e per mura, il cui solo aspetto la indica signora del mare”.
SESTA CINTA: MURA DEL 1536
Durante tutto il XV secolo la città si sviluppò a livello urbanistico, sorsero nuovi edifici e vennero aggiornati ed elevati quelli già esistenti, ma non ci furono ulteriori modifiche o aggiornamenti della cinta muraria, la cui parte più antica e quindi più interna fu vittima dell’espansione urbana finendo inglobata in molti punti dalle case o demolita laddove si rivelasse utile sfruttare in altro modo lo spazio da essa occupato; riguardo la cinta più esterna delle mura di Genova invece si provvide a rafforzare singoli elementi, come il Castelletto, ricostruito in veste di cittadella fortificata in cui vennero applicati moderni concetti di architettura militare mutuati dai francesi, o avamposti distaccati come alla Lanterna, sul Promontorio, al Peralto, al Castellaccio.
Nonostante ciò, la Genova che si affaccia al XVI secolo è dotata di mura vecchie di due secoli e decisamente inadatte a proteggere da un attacco sferrato con le nuove tecnologie di guerra, al punto che nel 1507 il re di Francia Luigi XII impiegò solo pochi giorni per piegare la città sotto l’avanzata del suo esercito, tanto più che gli sforzi per salvare i distaccamenti sulle alture lasciarono incustodito il centro cittadino semplificando l’opera agli aggressori. La caduta della città in mano francese significò la costruzione presso il Faro dell’odiata Briglia (vai all’approfondimento storico dedicato alla Lanterna), fortezza voluta da Luigi XII per “imbrigliare” appunto la Superba, con un contingente militare che teneva i cannoni perennemente puntati sul centro urbano. Quando finalmente i genovesi riuscirono a liberarsi della dominazione francese e sotto la guida di Andrea Doria strinsero alleanza con la Spagna, si impose l’assoluta necessità di aggiornare l’apparato difensivo per la salvaguardia dalle minacce francesi.
Nel 1536 fu dunque dato incarico al noto architetto militare Giovanni Maria Olgiati, proveniente da Milano, di stendere il progetto per l’erezione delle nuove mura di Genova: approvato nell’ottobre dello stesso anno, il progetto prevedeva un sistema di difesa efficace contro le nuove tecnologie belliche che ora si avvalevano del cosiddetto “assedio scientifico”, messo in atto attraverso apparati di artiglieria più potenti e precisi. Pochi mesi dopo giunse a Genova anche l’architetto Antonio da Sangallo, (precedentemente chiamato in vece dell’Olgiati, aveva dovuto rifiutare perché impegnato altrove), per dare un contributo al progetto e ai lavori. La spesa preventivata si rivelò decisamente alta, e il governo dovette imporre una tassa speciale ad essa destinata, oltre che obbligare con decreto tutti i cittadini a fornire una giornata di lavoro nella fabbrica delle mura di Genova. Alla contribuzione partecipò pure il clero, con una deroga di dieci anni concessa dal Papa alla Repubblica in virtù della natura difensiva dell’opera in atto.
La principale differenza tra i sistemi murari precedenti e quelli moderni che si andavano affermando in quegli anni era che i primi erano semplici muri di pietra (che, per quanto spessi, potevano essere sfondati dai potenti colpi di artiglieria divenuta ormai elemento fondamentale di attacco), mentre i secondi erano basati sull’elemento del bastione fortificato, cioè un muro rinforzato da un terrapieno, resistente quindi all’artiglieria. Portare a termine l’opera nel minor tempo possibile divenne l’imperativo per tutta la città, e molte demolizioni furono ordinate al fine di liberare lo spazio dove dovevano sorgere le mura, tra cui quelle di diversi complessi ecclesiastici come la chiesa dell’Annunziata di Portoria, dove doveva passare la nuova cinta dell’Acquasola, e l’oratorio di S.Tomaso i cui religiosi furono trasferiti al Vastato (cioè presso la chiesa della Nunziata del Vastato nell’attuale piazza della Nunziata).
La cinta delle nuove mura di Genova si estendeva per oltre 9 km con 19 bastioni e 25 guardiole e il percorso ricalcava in gran parte quello trecentesco: da Porta S.Tomaso, in zona Principe, saliva al baluardo di S.Giorgio (trasformato in forte nel 1818 e oggi sede dell’Istituto Idrografico della Marina) per toccare il punto in cui oggi si erge Castello D’Albertis e proseguire fino al bastione di Pietraminuta, poi quello di Carbonara, dove si apriva l’omonima porta (esistono dei resti visitabili sotto Via Brignole De Ferrari nei pressi dell’Albergo dei Poveri); dal baluardo di Montaldo, in corrispondenza dell’odierna Spianata Castelletto, scendeva fino a Portello, nei pressi di Strada Nuova, andando perciò a comprendere tutti i nuovi magnificenti palazzi dell’aristocrazia cittadina. Da qui le mura proseguivano fino alla collina dove oggi è Villetta Di Negro, finendo per innestarsi sul bastione dell’Acquasola tramite una lunga cortina rettilinea in cui si apriva la porta omonima; andavano poi verso il bastione di Porta dell’Arco e si agganciavano alle mura che cingevano la collina di Carignano. Cinque erano le porte principali ricostruite ex novo secondo i moderni criteri e ornate dai più valenti scultori genovesi dell’epoca: S.Tomaso, Carbonara, Portello, Acquasola e porta dell’Arco (o di S.Stefano, dal nome della chiesa adiacente in parte demolita per far posto alle mura).
Degli interventi cinquecenteschi fa parte inoltre la costruzione della monumentale Porta del Molo o Siberia, posta a coronamento del tratto di mura che proteggeva il molo vecchio, inserita nella fase di completamento dei lavori che chiuse la cinta muraria erigendone la parte fronte mare (detta “muragliette”) che andava da S.Tomaso al Molo. Disegnata da Galeazzo Alessi in stile rinascimentale, fu realizzata in funzione delle nuove tecniche militari basate sull’uso delle armi da fuoco, il che spiega lo spessore del suo impianto e la forma a tenaglia. Sulla sua sommità venne situata una batteria a difesa del bacino portuale. Quando nei secoli successivi smise di avere funzione difensiva i suoi vasti locali furono utilizzati come caserma e magazzino. Lungo le muragliette vi era poi per ciascun ponte una porta che permetteva l’ingresso in città e prendeva nome dal ponte stesso, ma di queste, così come delle mura, non è rimasto nulla a causa delle demolizioni effettuate nell’Ottocento per il rinnovamento di tutta la zona portuale.
LE ULTIME MURA DI GENOVA E L’ATTACCO FRANCESE DEL 1684
Nell’intervallo di circa un secolo intercorso tra l’erezione delle mura cinquecentesche e quella delle nuove mura gli interventi che si registrano sono principalmente di rafforzamento laddove l’incuria e la scarsa manutenzione mettevano a rischio l’efficienza della cinta, che comunque si faceva sempre più inadeguata col passare del tempo, vista la costante evoluzione delle armi da fuoco. Inoltre le porte risultavano sguarnite, le ronde notturne erano insufficienti, molte guardiole in stato di completo abbandono, gli alloggi destinati ai soldati di guardia in pessime condizioni, come risulta da un’ispezione in seguito alla quale si intervenne per ovviare almeno alle criticità più evidenti. Tanta approssimazione era anche diretta conseguenza dell’instabile clima politico della città, retta ormai da un secolo da un regime oligarchico e preda del timore sia di attacchi esterni sia di congiure interne.
Nel Seicento inoltre cominciarono i contrasti coi Savoia, che da tempo immemore avevano mire espansionistiche sui territori controllati dalla Repubblica, ed erano in questo appoggiati dalla Francia, nemica giurata della Spagna di cui la Repubblica era alleata. Nel 1625 la disposizione di forze franco-piemontesi contribuì ad accrescere il fondato presentimento di un imminente attacco, cosa che fece prendere provvedimenti d’urgenza per la difesa della città: una commissione di cui faceva parte l’architetto Bartolomeo Bianco partì per un sopralluogo e stese un progetto che prevedeva la realizzazione di una cortina fortificata da S.Benigno al Bisagno, passando lungo la linea di cresta dei rilievi montuosi che formavano la conca entro cui stava il centro urbano: spingendosi quindi decisamente verso l’interno rispetto alla cerchia cittadina esistente, e creando un sistema difensivo potenziato per estensione, punti di avvistamento, artiglieria e fortificazioni, che passasse per alcuni punti cruciali delle alture (Promontorio, Bastia e chiesa del Crocifisso, Granarolo, Castellaccio e altri sul versante del Bisagno) e impedisse al nemico di scendere sulla città arrivando dai monti.
Nel frattempo (1625) l’esercito nemico muoveva da Asti verso Genova, rallentato fortunatamente dalle condizioni atmosferiche e da dissidi tra i comandanti, ma presto conquistava Ovada, Novi, Gavi, Voltaggio, e solo in virtù della defezione del contingente francese che si ritirò su ordine di Richelieu i Savoia persero infine contro le ridotte (dopo una prima sconfitta in cui erano state falcidiate) milizie genovesi, messe insieme con truppe mercenarie e uomini del Bisagno e del Polcevera (mentre la flotta spagnola nel mentre giunta in porto presidiava la città) capitanati dal Maragliano.
I lavori per la nuova cinta intanto fervevano, con uno schieramento di ingegneri militari e di oltre venti architetti ognuno responsabile di un tratto, e alla direzione dei lavori Bartolomeo Bianco e Bastiano Ponsello architetti camerali, tutti coordinati dal Magistrato di Milizia; in questa prima fase, data la gravità della situazione, si diede priorità agli interventi più urgenti, in parte sulle alture e in parte lungo la cinta preesistente che fu fortificata e ristrutturata. Il progetto prevedeva mura che si estendessero per ben 20 chilometri; per finanziare un’operazione simile tutti i lavori pubblici e privati vennero sospesi con ordinanza del governo e si ricorse all’istituzione di una serie di tasse speciali, oltre naturalmente all’ingente contributo offerto dall’aristocrazia e dai potenti banchieri genovesi, all’epoca cardini della finanza europea (e dal 1630 con decreto decennale fu compreso nel pagamento delle tasse per le mura anche il clero, come già nel secolo precedente); a supervisione della fabbrica delle mura furono create magistrature ad hoc, quella dell’Erario e quella per le Nuove Mura, con funzioni complementari.
Nonostante gli ottimi presupposti, a breve distanza dalla posa della prima pietra i lavori subirono un notevole rallentamento, al punto che oltre due anni dopo si era ancora in fase di progetto descrittivo e mancava quello esecutivo, e dovettero trascorrerne altri due perché si giungesse alla definitiva approvazione e, con la nomina di Bartolomeo Bianco ad Architetto Capo d’Opera, i lavori prendessero pieno ritmo. Il tracciato, già suddiviso tra i vari responsabili, fu appaltato in 22 lotti a vari imprenditori che dovevano curarne la realizzazione sotto la guida degli architetti, e si impegnavano, secondo il capitolato d’appalto, a finire entro il 1632. Il buon andamento della fabbrica era garantito dalle frequenti visite dei magistrati che controllavano il procedere dei cantieri, che presentavano ovviamente difficoltà in corso d’opera: queste dovevano essere risolte volta per volta, così come in corso d’opera fu decisa la sistemazione definitiva della varie porte, per le quali il progetto forniva solo indicazioni di massima. Le due porte principali furono decise essere Porta Pila, che immetteva sulla piana del Bisagno, e Porta della Lanterna, che si apriva sul ponente, verso Sampierdarena; in più c’erano una serie di porte minori (sei portelli) in punti strategici. Nel 1632, l’anno di lavoro più intenso, risultavano impiegati più di 5.200 operai di cui molti specializzati, e il governo radunò anche lavoratori di altri campi (sarti, disegnatori, tintori, tessitori, orefici, cartai e altri) per impiegarli nella fabbrica delle mura, in quel momento più urgente rispetto ai loro mestieri. Con un simile dispiegamento di uomini e un continuo viavai attraverso le porte e in tutta la zona della fabbrica, era di massima importanza il controllo ai varchi per fermare forestieri sospetti o possibili portatori della terribile ondata di peste che giusto in quegli anni mieteva numerose vittime in Italia e in Europa (1630).
Al principio del 1633 la colossale cerchia muraria era finalmente compiuta, facendo nuovamente di Genova una delle città meglio fortificate d’Europa e la cui vista suscitava profonda ammirazione nei visitatori che giungevano dal mare. Contava 48 bastioni e 137 guardiole, e inoltre si continuavano lavori accessori e di completamento; mancava solo la sistemazione della monumentale Porta Pila, innalzata nel suo sito nel 1642. La porta venne poi smembrata nel 1895 con l’apertura della parte bassa di Via XX Settembre e ricomposta presso il bastione di Montesano nel 1901, e poi spostata ancora – sempre lungo la stessa direttrice viaria – trovando collocazione definitiva nel 1950: oggi la si può facilmente vedere che svetta in via Montesano alle spalle della Stazione Brignole. L’altra porta principale delle Mura Nuove, quella presso la Lanterna, fu invece demolita nel 1877 durante i lavori di ammodernamento della viabilità verso ponente.
Nei decenni successivi la Repubblica ebbe l’accortezza, nonostante le finanze già pesantemente provate dalla spesa per la cinta, di mantenere efficiente l’opera difensiva con aggiornamenti e opere complementari, stando al passo col continuo progredire delle tecniche delle armi da fuoco; fu deliberata la costituzione permanente della Compagnia dei Bombardieri, poiché ormai era indispensabile avere nell’esercito cittadino un corpo specifico di tecnici che gestisse l’apparato di artiglieria (prima di allora venivano chiamati solo in caso di necessità), e fu loro riservato uno spazio all’Acquasola per le esercitazioni; nel 1687 furono individuati siti il più possibile sicuri per lo stoccaggio della polvere da sparo (Lagaccio, Voltri) dal momento che quelli all’interno del perimetro urbano destavano non poca preoccupazione nei cittadini che vi risiedevano vicino. Se a inizio Seicento l’artiglieria genovese contava 156 pezzi, a fine secolo ne conta 195, di recente fattura e meglio assortiti.
Vale la pena ricordare come l’ingente sforzo per l’erezione di quest’ultima cerchia muraria si rivelò insufficiente nei fatti storici che stavano per accadere. Il massiccio intervento operato in quegli anni non valse infatti a proteggere la città dall’attacco sferrato dal Re di Francia Luigi XIV nel 1684.
Dopo la pace del 1627 la Repubblica aveva cercato di mantenersi diplomaticamente neutrale tra Francia e Spagna, ma questo non aveva certo abbassato le mire di conquista francesi: il re sapeva benissimo che assoggettare la Repubblica significava il possesso della Corsica ed era un punto di partenza per ampliare i disegni sul Mediterraneo. Attraverso una serie di chiari pretesti e provocazioni apposite, nonché di richieste di sottomissione cui il governo genovese rispose sempre mostrando grande orgoglio, si arrivò al punto di rottura: il 17 maggio giunsero di fronte al porto 160 navi da guerra francesi, fornite della più moderna e potente artiglieria disponibile all’epoca (in quel periodo infatti la tecnica francese riguardo le armi da fuoco era la più avanzata d’Europa), a formare uno schieramento compatto dalla Lanterna alla Foce. La delegazione genovese che si recò su una delle navi francesi per cercare una soluzione diplomatica non ottenne alcun risultato se non la certezza che le intenzioni della flotta erano quelle che si manifestarono di lì a poco: tra il 18 e il 19 maggio si abbatté sulla città una scarica di 6.000 bombe incendiarie con una gittata estremamente potente, contro cui né le mura né la debole artiglieria genovese potevano far nulla; i tesori della città furono traslati in fretta all’Albergo dei Poveri, fuori dal tiro delle bombe, dove si rifugiarono anche il Doge e i funzionari, e la popolazione fu fatta sfollare attraverso le porte di Carbonara e Acquasola, mentre la città bruciava e l’ambasciatore genovese a Parigi veniva rinchiuso alla Bastiglia, in piena violazione delle più elementari regole diplomatiche. L’armata francese fu infine bloccata a terra nel suo tentativo di presa della città, contrastata dalle Milizie Urbane e da volontari polceveraschi giunti in soccorso. Alla fine dell’attacco, che aveva scaricato in tutto 16.000 bombe, Genova contava danni gravissimi; soprattutto, era emerso con drammatica evidenza il fatto che ormai le mura, per quanto spesse ed estese, non potevano bastare a contrastare attacchi che si valevano di armi da fuoco a lunga gittata.
Dopo l’occupazione austriaca del 1746 e la relativa cacciata degli invasori, il governo provvide a nuove opere di potenziamento delle mura, finalizzate sostanzialmente a impedire l’avvicinamento fisico del nemico, spostando sempre più all’esterno la linea difensiva della città attraverso trinceramenti e opere campali che permettessero di contrastare gli attacchi da posizioni privilegiate sui crinali delle valli Bisagno e Polcevera, e aggiungendo mezzi di artiglieria su tutto il fronte mare. Nel mentre veniva rinnovato l’apparato di artiglieria, adeguandolo agli standard degli atri stati europei, e i tecnici bombardieri si formavano tramite studi specifici e non più solo empiricamente.
Verrà poi la rivoluzione francese nel 1789 ad alterare di nuovo gli equilibri di pace della Repubblica, con Genova oggetto di sorti alterne fino al 1815, quando viene definitivamente annessa al Regno di Sardegna, perdendo l’indipendenza. Da qui in poi gli ulteriori interventi operati dai Savoia a livello di fortificazioni non varranno più alla difesa della città, ma al controllo e alla repressione di possibili sommosse cittadine.
Claudia Baghino