Dalle argomentazioni contenute nei documenti, si presume che i primi abitanti di quello che oggi è il vasto quartiere ponentino di Pegli fossero dediti all’agricoltura e alla pastorizia e occupassero le zone più a monte, servite dalla via Aurelia, il cui percorso si snodava lontano dalla costa. Ben presto, però, gli abitanti di un territorio avaro di risorse volgono la loro attenzione al mare e, in breve tempo, si sviluppa sul litorale un primitivo nucleo che, da una cartina del Vinzoni, datata 1773, dovrebbe identificarsi con l’antica Rettoria del Porticciolo. La necessità di agevolare le attività commerciali portò alla nascita di tre direzioni viarie, perpendicolari alla costa: una strada che si snodava lungo il torrente Rexello, chiamata il Fossato, una che dal mare saliva fino alla chiesa di S. Martino, detta della Crosa (vico Condino) e una terza che raggiungeva l’attuale Municipio, il cosiddetto Carruggio (vico Sinope).
Sul mare si affaccia la “palazzata” storica, in cui le colorate case dei pescatori si intercalano a resti di edificazioni medievali e di eleganti costruzioni ottocentesche. Grazie ai suoi abitanti che seppero coniugare abilmente la perizia marinaresca all’innata natura commerciale dei liguri, il primitivo piccolo borgo si espanse fino ad inglobare la Rettoria di Terrarossa, sotto la giurisdizione della Parrocchia di San Martino. A questa fu annessa, in un secondo momento, anche la rettoria Laviosa, posta all’estremo ponente del territorio, quando la sua parrocchia venne declassata a chiesa rurale. Ad est vi era, invece, la Rettoria di Multedo che, anch’essa in tempi brevi, divenne a tutti gli effetti parte integrante del paese. La difesa del territorio era assicurata, ad ovest, dal Castelluccio, sito in una zona conosciuta come il Galello, ad est dalla Torre di Pian di Lucco (oggi abbattuta) e, sul molo occidentale, da una fortificazione, oggi sede di un albergo, posta a guardia di quel porto in cui approdavano, nel Medioevo, le galee dei Centurione, dei Vivaldi, dei Doria e dei Lomellini. Questi ultimi, nel 1540, ottennero dall’imperatore Carlo V, in concessione, l’isola di Tabarca ove vi fondarono una colonia dalla quale importavano pepe, orzo, ma soprattutto corallo, incrementando ancor più sia l’attività commerciale del borgo sia l’espandersi dell’urbanizzazione. In realtà, recenti studi hanno messo in dubbio, visto la limitatezza dello scalo, che qui potessero attraccare grandi imbarcazioni per cui, normalmente, si ricorreva al “bucio”, un natante a vela di ridotte dimensioni che, solitamente, era acquistato in società.
LE COLONIE PEGLIESI DA TABARCA A CARLOFORTE
Nel 1540 l’isola di Tabarca, in Tunisia, prospiciente la città omonima, venne data dal bey di Tunisi in concessione alla famiglia genovese dei Lomellini, come riscatto per la liberazione del corsaro Dragut, catturato dai Doria quello stesso anno. Poco dopo, attirati dal miraggio di facili e proficui guadagni, un gruppo di commercianti pegliesi decise di raggiungere quel lembo di terra che rimarrà la loro patria per due secoli, dedicandosi, soprattutto, alla pesca del corallo che esportavano a Genova al prezzo di 4,50 lire/libbra e che rivendevano per 9,10 lire/libbra a tutta Europa.
Nel 1736, Carlo Emanuele III, volendo valorizzare la Sardegna, al fine di fondare una nuova colonia, mise a disposizione l’isola di San Pietro, piccolo fazzoletto di terra facente parte dell’arcipelago del Sulcis; così 462 emigranti, di cui 379 tabarchini e 83 direttamente dalla Liguria, con a capo Agostino Tagliafico, decisero di salpare alla volta di quella nuova patria che raggiunsero il 17 aprile 1738, fondandovi l’attuale Carloforte, così chiamata in onore del sovrano. Pochi anni dopo, nel 1741, un evento drammatico colpì gli abitanti di Tabarca: il bey di Tunisi fece occupare, a tradimento, l’isola e ridusse in schiavitù i 900 residenti che non erano riusciti a fuggire. Solo dieci anni più tardi fu possibile riscattarli: parte di essi si unirono ai loro compatrioti carlofortini, altri andarono a costituire la colonia di Calasetta, nell’isola di Sant’Antioco (Sardegna), altri ancora fondarono Nueva Tabarca nell’isola di San Pablo di Alicante, in Spagna. Tutt’oggi Carloforte mantiene stretti contatti con la terra di origine; condivide con Pegli il dialetto, l’architettura, la cultura e i costumi.
LA CHIESA DI SAN MARTINO DI PEGLI
Lungo l ’antica “Creuza de San Martin”, che dal mare saliva verso i monti, oggi Via Beato Martino da Pegli, si ergeva l’antica omonima chiesa, la cui prima edificazione è databile intorno al 1140 e di cui si ha certezza in documenti del 1144. Nata come monastero, dipendeva dai Benedettini di San Siro di Genova, religiosi che ne curarono la reggenza fino al 1530, anno in cui venne elevata al rango di parrocchia. Piccolo eremo un po’ discosto dalla costa, in cui fervevano le attività economiche, ebbe un ruolo secondario nello sviluppo del borgo indirizzando i propri interessi prevalentemente verso la vallata a monte. Accanto alla cura delle anime, infatti, i monaci annoveravano, tra i loro compiti più “temporali”, quello di raccogliere le prebende dei mulini della Val Varenna che gravitavano sotto la giurisdizione della chiesa. Quando, nel 1544, l’edificio religioso passò sotto la guida dei Benedettini di S. Nicolo del Boschetto, il cui governo si protrasse fino al 1807, la struttura era talmente fatiscente che fu necessaria una vera ricostruzione che, pur rispettando l’impianto romanico primitivo, ne rivoluzionò completamente l’architettura[1].
VILLA DURAZZO PALLAVICINI
Un imponente complesso che comprende un palazzo gentilizio, l’antistante orto botanico e alle spalle la zona collinare, un tempo ricoperta da riarsi vigneti, oggi ha ceduto la scena ad un parco celebrato per la rarità e la bellezza delle sue piante, per la genialità dei suoi giochi d’acqua e per il laghetto sotterraneo dal quale si arrivava direttamente al mare.
L’ispiratrice di tale meraviglia fu la Marchesa Clelia Durazzo, moglie di Giuseppe Grimaldi, esperta botanica che rese il giardino una vera raccolta di piante rare ed esotiche. Fu, però, suo nipote, il Marchese Ignazio Alessandro Pallavicini, che, tra il 1836 e il 1846, affidò a Michele Canzio, scenografo del Carlo Felice, la ristrutturazione dell’edificio e delle sue pertinenze naturalistiche. Fu così che le aree verdi assunsero il ruolo di una grande rappresentazione a cielo aperto, sul modello dei ridondanti spettacoli operistici dell’Ottocento.
Un ombroso viale di lecci conduce all’imponente palazzo nobiliare di villa Durazzo Pallavicini, sede, oggi, del Museo Civico di Archeologia Ligure in cui sono custoditi reperti storici che coprono un periodo che va dal Paleolitico fino al Tardo antico (III-IV-V sec. d.C.). La collezione vide la luce nel 1936 (fu portata all’Abbazia di Tiglieto per la guerra e riaperta nel 1953) ed è un autentico viaggio nella storia o meglio nella protostoria della Liguria.
VILLA CENTURIONE DORIA
La villa rinascimentale Doria Centurione (XVI secolo) è citata dal cartografo Vinzoni (1773), il quale definisce Pegli “borgo delizioso in riva al mare, tanto per i palazzi quanto per li vaghi giardini tra i quali tengono il primo posto quei del Principe Doria, con giochi d’acqua e boschi”. Fatta costruire da Adamo Centurione, ricco banchiere genovese, passò, nel 1584, a suo nipote Giovanni Andrea Doria, casata che ne vantò la proprietà fino al 1908. Non si conosce l’esatta data di costruzione che si presume poco prima della metà del ‘500 come farebbe fede l’opera del Vasari, “Vite” (1550), in cui viene descritto il contributo dell’Alessi sull’ideazione di un lago artificiale, oggi interrato, “copiosissimo di acque e fontane fatte in diversi modi belli e capricciosi”. L’ edificio originale era costituito da un corpo principale e due ali aggettanti in avanti rispetto all’asse centrale. Con la ristrutturazione del 1592, su progetto di Andrea di Ceresola, detto il Vannone, il complesso si arricchì dei due corpi laterali anteriori e della torre di avvistamento anti-pirateria, a pianta quadrata, separata dall’edificio, ma collegata al contesto circostante da un ponticello di mattoni. Intorno un’estesa area verde che giungeva fino al mare ed ospitava uno dei più vasti e importanti giardini all’italiana del ponente genovese. Le sale della dimora, riccamente decorate con affreschi romano-manieristi del tardo ‘500, ospitano dal 1929 il Museo Navale della Navigazione.
Adriana Morando
[1] A metà strada tra villa Durazzo-Pallavicini e la chiesa di San Martino, si trova l’Oratorio di San Martino. Già sul finire del XIII secolo, la “Casaccia” di San Martino di Pegli era un’ importante realtà ed aveva sede, come indicherebbe l’etimologia del nome, in una struttura molto semplice sostituita, intorno al 1400, da una fabbrica (edificio specificamente dedicato al culto religioso) e dal vicino presbiterio. Fu solo nel ‘700 che raggiunse il suo massimo splendore quando, in occasione di una radicale ristrutturazione, l’edificio venne impreziosito da decorazioni barocche e preziosi affreschi. Tra i reperti di maggior pregio si annoverano un crocefisso del Maragliano e una statua lignea, dello steso autore, dedicata a Santa Rosalia, Patrona di Pegli, senza contare i tabarrini (corto mantello), le cappe pastorali, le Casse e Cristi processionali, i böffi (cappucci triangolari), i crocchi (parte dell’imbragature in cuoio ove poggia la croce), tutti elementi indispensabili nelle annuali commemorazioni celebrative in cui si esibiscono i portòu da Cristo (portatore di Crocefisso), gli stramuòu (coloro che trasferiscono la croce da un portatore all’altro) e i brasezòu (portatore del Crocefisso appoggiato alla spalla).