I mesi estivi del 1910 rappresentano uno dei momenti più significativi nella storia del calcio a Genova. I soci del Genoa guidati da Edoardo Pasteur compiono un passo importante, il primo atto ufficiale che dà il via alla lunga storia del campo di Marassi (nel 1933 sarà intitolato al calciatore rossoblu Luigi Ferraris, vai all’articolo), lo stadio di calcio più antico d’Italia fra quelli in attività che ospita ancora oggi gli incontri di Genoa e Sampdoria. L’accordo con il marchese Musso Piantelli, anch’egli socio rossoblu, diventa ufficiale il primo luglio del 1910. Il Genoa si trasferirà da San Gottardo a Marassi, nel terreno che ospita l’ippodromo della villa della ricca famiglia Piantelli, proprio lì, a pochi metri di distanza dalla “Cajenna”, lo storico campo dell’Andrea Doria (vai all’articolo precedente).
▶ Qui trovi tutti gli articoli sulla Storia del calcio a Genova
La zona di via del Piano sulla sponda del Bisagno era stata aperta da pochi anni ed era facilmente raggiungibile con i tram dal centro città. Sul finire dell’anno i lavori per il nuovo campo di Marassi (che nei primi anni della sua storia è conosciuto come il “campo del Genoa di via del Piano”) erano già a buon punto. Unica condizione posta dal marchese, quella di continuare ad occuparsi del maneggio e di conservare il galoppatoio dei cavalli intorno al campo da gioco che, dopo un primo tentativo in senso opposto a quello attuale con il lato corto verso il Bisagno, venne infine sistemato perpendicolare rispetto a quello dei vicini doriani. Venne inaugurato il 14 maggio 1911 in occasione di una partita amichevole contro il Piemonte (stessa squadra che aveva inaugurato la Cajenna due anni prima), ma i giornali non diedero il giusto risalto all’evento. Poco importa lo 0 a 1 rimediato, si trattava di un passo epocale per il calcio genovese. Il nuovo impianto era all’avanguardia e aveva due tribune coperte lungo il Bisagno costruite dagli stessi soci rossoblu. Finalmente entravano in scena gli spogliatoi (persino uno ad uso esclusivo dell’arbitro), un lusso per i calciatori degli anni ‘10 costretti ad indossare gli indumenti da gioco sotto gli abiti civili ammucchiati durante il match in due grandi ceste dietro le porte (come testimoniano alcune foto dell’epoca) o, addirittura, a presentarsi al campo già in tenuta sportiva. Fu un grande sforzo economico a dimostrazione delle ambizioni e della lungimiranza del club rossoblu, fra le fila genoane non era mai passato di moda il sogno di avvicinarsi ai club professionistici britannici.
Da poco più di un anno in casa genoana si stavano muovendo in gran segreto i primi passi per quanto riguarda il tesseramento di calciatori in cambio di denaro e adesso il campo di Marassi era il fiore all’occhiello di un club proiettato al futuro. Il Genoa voleva tornare a dominare sul campo e, allo stesso tempo, riprendersi il ruolo di società leader fuori dal campo, modello per tutti i club calcistici d’Italia. Eppure la situazione finanziaria del club, nonostante la classe agiata della quasi totalità dei soci, non era rose e fiori prima e, a maggior ragione, non lo era adesso dopo i lavori di Marassi. D’altronde Genova non è famosa in Italia per le mani bucate dei suoi abitanti e, evidentemente, la peculiarità non era solo vanto dagli abbienti soci genovesi a tinte rossoblu ma era stata assimilata anche dai colleghi anglo-genovesi e dai purosangue di Sua Maestà. Va bene essere ricchi, ma sperperare nel calcio anche no. Tuttavia di lì a poco le cose sarebbero cambiate completamente e gli esborsi personali dei soci sarebbero diventati sempre più frequenti.
Il presidente di allora, l’ex giocatore rossoblu e tuttofare Goetzlof, tirò fuori varie soluzioni dal cilindro per far crescere la voce entrate. Innanzitutto, spillare il più possibile ai vicini di casa doriani che, oltre dover subire le conseguenze dell’arrivo in pompa magna e dell’insediamento degli storici nemici a pochi passi da casa propria, ora si sentivano persino bussare alla porta con richieste di denaro. Per dividere i due campi attigui e le due tifoserie in caso di eventi in contemporanea, il Genoa aveva innalzato un robusto steccato lungo il perimetro sud della Cajenna. Cari doriani lo steccato lo usate anche voi, fuori il grano. Eppure nessuno in casa Doria aveva chiesto loro di innalzarlo. Mille lire subito come rimborso spese e 200 lire all’anno per l’utilizzo. Il buon Oberti, che per anni si era divertito in più di un’occasione a provocare i “foresti” rossoblu, questa volta deve fare buon viso a cattiva sorte. Ma la caccia al denaro di Goetzlof puntava soprattutto i suoi stessi soci. Già da qualche tempo aveva affidato la riscossione delle quote sociali ad una associazione esterna per riscuotere anche dai soci assenteisti e “smemorati”. Michelangelo Dolcino, in uno dei tanti scritti sulla storia del Genoa, riporta che tale associazione era la Protezione Animali, una mossa definita incauta in quanto fornì per mesi ai tifosi doriani “fin troppo facili commenti”. L’inventiva di Goetzlof per attirare nuovi soci e nuove quote partorì anche l’idea di invitare in sede “socie patronesse” al fine di allietare le riunioni calcistiche del club e, soprattutto, di affidare ad una società esterna la gestione della pubblicità sul campo per un incasso annuo di 2000 lire. Le iniziative volte alla rapida crescita delle entrate funzionano eccome. Nel 1912 il Genoa assomiglia già a tutti gli effetti ad una società professionistica, pioniera assoluta in Italia del binomio denaro-pallone. Vuole tornare a vincere ed è disposto a tutto pur di riuscirci. Non lo può ovviamente sbandierare, i rivali cittadini doriani e la Federazione iniziano ad annusare la situazione e a puntare il dito contro i contravventori delle regole basate sul sacro dilettantismo, il presidente genoano e i soci dirigenti devono muoversi nell’ombra.
Il Genoa di “mister” Garbutt, pioniere del professionismo
Nel frattempo si gioca il campionato 1910/1911 (alla solita lega ligure-piemontese-lombarda si aggiunge una sezione emiliano-veneta considerata di secondo livello a cui viene concesso di disputare la finale contro la vincente del torneo principale per decretare il campione d’Italia), gli attesissimi derby attirano tanti tifosi genovesi sugli spalti e intorno alla pista ippica del nuovo Marassi così come intorno alla Cajenna. Entrambe le compagini riescono a spuntarla sul campo del rivale, il Genoa vince 3 a 2 alla Cajenna, la Doria supera i rossoblu per 2 reti a 1 pochi metri più in là sul nuovo campo di Marassi. Le due squadre genovesi si giocano il primato cittadino sino alla fine e a sorpresa a spuntarla è l’Andrea Doria che conquista il terzo posto finale sopra il Genoa che come l’anno precedente concluse la competizione al quarto posto. Fu la goccia che fece traboccare il vaso in casa rossoblu.
Dopo i segnali di ripresa della stagione 1911/1912, il Genoa si presenta ai nastri di partenza del campionato 1912/1913 profondamente rinnovato nell’undici titolare e con una novità assoluta per il football tricolore. Viene ingaggiato l’ex giocatore e allenatore dell’Arsenal William Garbutt (da pochi mesi trasferitosi a Genova per lavorare in porto dopo il ritiro dal calcio giocato), ovvero il primo allenatore professionista nella storia del calcio italiano. La figura di Garbutt si legherà a tripla mandata alla causa genoana, sarà il condottiero del Genoa più forte di sempre fino al 1927 (vai all’articolo sul Grande Genoa), tornerà sulla panchina rossoblu per la coppa Italia e l’Europa degli anni ’30 (vai all’articolo sugli anni ’30 e ’40) e una terza volta dal 1946 al 1948 chiudendo la carriera nella sua città d’adozione. Ma la figura di Garbutt non è celebre solo per le vittorie con il grande Genoa. A causa dell’uso inglese dell’appellativo prima del nome e cognome, Garbutt a Genova diventa semplicemente il “mister”. Lo chiamano così i manovali in porto, i giocatori sul campo e gli appassionati di calcio nelle osterie e in tribuna. Nasceva così quella parola che utilizziamo ancora oggi in tutta Italia per indicare l’allenatore su qualunque campo di calcio dai pulcini alla serie A.
Mister Garbutt ragiona in grande da subito e, supportato dalla dirigenza, porta con sé un gruppo nutrito di mercenari del football inglese fra cui spiccano Grant, Walsingham, MacPherson e Eastwood. Il Genoa si riprende immediatamente il primato cittadino, ridicolizza i doriani con i clamorosi punteggi di 6 a 0 all’andata e 5 a 1 al ritorno, si qualifica come secondo dietro al Milan nel girone ligure-lombardo (il campionato si divideva ora in più gironi regionali, comprendendo anche il sud) e viene fermato in semifinale 1 a 0 in una tiratissima sfida contro la Pro Vercelli che si confermerà campione per la quinta volta. Ma la strada per il rinforzo della squadra è tracciata e a stagione conclusa gli acquisti (che ovviamente continuano a figurare come ingressi in società motivati dalla spontanea volontà dei singoli atleti) non si fermano alla madre patria inglese.
Lo storico tradimento di Sardi e Santamaria dall’Andrea Doria al Genoa
La dirigenza rossoblu inizia a gettare le basi di quella che sarà la grande squadra italiana degli anni pre e post bellici guardando al meglio del calcio nostrano e convince con un esborso faraonico di 24000 lire il talento del Milan e già pilastro della nazionale “figlio di Dio” De Vecchi a salire sul treno e trasferirsi a Genova. Il grande terzino, un fuoriclasse per l’epoca, sarà colonna del Genoa per molti anni. Ma non è finita qua. Gli occhi cadono anche sulla forte coppia doriana Sardi – Santamaria e si consuma così un tradimento storico che in pochi giorni assume le dimensioni di scandalo a livello nazionale. Il dirigente rossoblu Geo Davidson convocò i due doriani in sede in gran segreto, chiedendo loro di fare il possibile per non farsi notare. Le fonti raccontano di un colloquio breve, quanto bastò per far illuminare gli occhi agli increduli avversari. Promessa a tre zeri, una gran somma di denaro per l’epoca, soprattutto per due ragazzi di 21 e 23 anni. Davidson compilò all’istante gli assegni e li consegnò ai due ormai ex doriani. L’incauto Sardi, preso evidentemente dall’impazienza di avere tra le mani una somma simile, si reca immediatamente in una banca di via San Lorenzo per riscuotere. Il cassiere della banca, il buon Sardi non lo può sapere, è un doriano sfegatato. Nonostante il tentativo di operare in segreto, la notizia del tradimento della coppia era nell’aria da qualche giorno e il cassiere di fede biancoblu quando lesse che il traente dell’assegno era Geo Davidson capì immediatamente di avere la prova fra le mani. Il tifoso prese il sopravvento sul professionista. L’uomo disse al Sardi che l’assegno non poteva essere liquidato immediatamente e che sarebbe dovuto passare il giorno seguente. Così fu, ma la mossa servì per fare una copia fotografica dell’assegno e consegnarla alla società doriana che immediatamente la invia alla Federazione. Apriti cielo. La stampa e la Federazione accusano il Genoa di professionismo, ora c’è la prova schiacciante. Nella requisitoria viene addirittura chiesta la squalifica a vita dei due giocatori traditori e lo scioglimento del Genoa con espulsione dalla Federazione. A rappresentare il Genoa nella delicata difesa durante il processo sportivo tenutosi a Vercelli è ancora una volta il factotum e cuore rossoblu Edoardo Pasteur, il quale (dopo il tentativo di Davidson smascherato dalla Gazzetta dello Sport di cambiare le carte in tavola con un nuovo assegno della stessa cifra in cui questa volta Sardi e Santamaria sono solo il tramite e il beneficiario è una piccola società sportiva genovese in difficoltà) non nega mai l’accaduto, ma riesce a convincere gli accusatori che si tratta dell’iniziativa personale di un socio (che sette giorni prima del processo era stato eletto vicepresidente del Genoa!) con capitali propri e non del club. Pasteur riuscì a spuntarla. Decisiva fu la mano tesa in segno di pace dello stesso Zaccaria Oberti, presidente della Doria, in nome dello spirito cavalleresco che caratterizzava il football dei pionieri. Sardi e Santamaria (a cui Oberti scrisse una lettera parlando senza peli sulla lingua di tradimento e prostituzione di ogni alto ideale di sport) se la cavarono con due anni di squalifica poi ridotti a pochi mesi e al Genoa venne squalificato il campo di Marassi per sei mesi. Ma ormai il primo passo del calcio verso il professionismo era compiuto e gli altri ricchi del calcio italiano a Torino e Milano iniziarono ben presto a seguire l’esempio rossoblu. La svolta fu epocale. E cosa ne fu del banchiere doriano? Licenziato in tronco per violazione del segreto bancario! Oltre il danno la beffa.
Il caso Sardi – Santamaria, a cui si deve aggiungere anche il trasferimento della giovane promessa Fresia sempre dalla Doria al Genoa per 400 lire (Fresia pochi anni dopo, accusato di professionismo, passò al Reading e fu il primo giocatore italiano a trasferirsi all’estero) è un duro colpo per la società doriana. Nel frattempo il suo fedele condottiero Calì si ritira dal calcio giocato dopo la vittoria doriana dell’ultimo campionato della Federazione Ginnastica. La squadra che era riuscita nell’impresa di scalzare il Genoa per più di una volta dal trono cittadino (vai all’articolo sugli storici derby di inzio secolo) si trovava adesso decisamente indebolita. E il neonato “calciomercato” non favoriva certo la compagine del presidente Oberti, non in grado di stare al passo con i ricchi rivali.
I campionati del 1914 e del 1915, la vittoria a tavolino del settimo scudetto del Genoa
Dall’altra parte il Genoa nuovo di zecca è uno squadrone. La mano di mister Garbutt non tarda a farsi sentire, la sua esperienza pluriennale nel “vero” football inglese porta in Italia una rivoluzione nei metodi di allenamento e nella costruzione della squadra con grande attenzione alla preparazione fisica e tecnica degli atleti. Il campionato 1913/1914 era alla portata, il divario con la Pro Vercelli non era più così ampio e il Milan privo di De Vecchi non faceva più paura. Nonostante la squalifica del campo di Marassi, il Genoa chiude il girone ligure-piemontese primo a parimerito con la sorpresa Casale e liquida la Doria nei due derby 1 a 0 e 5 a 3. In città non c’è più storia. La corazzata rossoblu dovette arrendersi a un passo dalla scontata finale contro la vincente del girone meridionale (il divario era ancora troppo ampio fra compagini del nord-ovest e resto d’Italia) perdendo la sfida contro il Casale che vinse poi in finale contro la Lazio il suo primo storico campionato.
Smaltita la delusione per il successo sfiorato, Garbutt e dirigenza sono nuovamente al lavoro per convincere i migliori atleti italiani a giocare per il Genoa. La politica del club è quella di formare in casa grandi calciatori affidando alle sapienti mani del “mister” inglese il meglio offerto dal calcio italiano. Le attenzioni cadono su Mattea e Berardo del Casale e sul portiere Lissone del Roman, compagine del girone meridionale. Fu nuovamente scandalo, accentuato dal pentimento di Mattea e i rossoblu recidivi vennero multati dalla Federazione e puniti con una nuova squalifica del campo, questa volta per sole due partite. Il buon Lissone, inoltre, giocò contemporaneamente per entrambi i club facendo la spola Genova-Roma. Insomma, un’altra frittata, ma ormai la strada del professionismo è tracciata e la clemenza delle pene lo confermano. Quello che conta per i vertici del Genoa è il campo e l’opera di rafforzamento e italianizzazione della squadra è completata. Adesso Walsingham figurava come unico straniero di un undici stellare che faceva paura a chiunque.
Nel frattempo la Grande Guerra era già realtà e l’Italia neutrale sarebbe durata ben poco. Il campionato del 1914/1915 inizia in questo clima e, per di più, con il consueto teatrino in Federazione e l’annuncio dell’ennesima nuova formula che accanto al principale torneo settentrionale (diviso in sei gironi locali) prevedeva tre sezioni (centrale, meridionale e insulare, poi ridotte a due per l’assenza di iscritti da Sicilia e Sardegna) a loro volta divise in gironi regionali. Le prime di ogni sezione si sarebbero sfidate in semifinali per accedere alla finale contro la vincente del campionato del nord. Risultato più di 50 squadre partecipanti, in gran parte dilettanti allo sbaraglio. Nel girone ligure-piemontese si qualificano in ordine di classifica Genoa, Alessandria e Andrea Doria. I due derby sono a senso unico. E se all’andata fra le mura amiche il Genoa si impone con un perentorio 3 a 0, il ritorno alla Cajenna è una autentica umiliazione, un tennistico 0 a 8 che non lascia spazio a commenti e affossa definitivamente le speranze biancoblu di competere per il predominio cittadino. Nelle semifinali nazionali Genoa e Doria giocano in due gironi diversi. I rossoblu, imbattuti in casa, strapazzano Juventus e Venezia e superano il Casale (innocua la sconfitta al ritorno in trasferta per 2 a 1) qualificandosi per il girone finale con Torino, Inter e Milan. La Doria rialza la testa dopo l’umiliazione nella stracittadina e a sorpresa manca la qualificazione alla fase finale per soli due punti, concedendosi il lusso di battere l’Inter sul campo della Cajenna per 1 a 0. Il girone finale fra le grandi del nord è in programma a maggio e la vincente sfiderà in finale la matricola del sud. Gli incontri sono tirati. Il Genoa in casa è un rullo compressore, batte l’Inter 5 a 3 (con cinque reti di Santamaria) e il Milan 3 a 0. A Milano pareggia con i rossoneri, ma a Torino scivola clamorosamente 6 a 1 contro i granata allenati da un giovane Vittorio Pozzo (che però non erano riusciti ad andare oltre il pareggio in casa con l’Inter e avevano perso nel ritorno a Milano). In terra milanese arriva la pronta reazione, il Genoa di Garbutt sentenzia l’Inter 1 a 3 ed è a un passo dalla finale (gli basta il pareggio in casa nel ritorno con il Torino) quando arriva la sospensione della Federazione per l’entrata in guerra dell’Italia. Una decisione che fa discutere ancora oggi a distanza di oltre un secolo. Genoa e Torino avrebbero voluto giocare ugualmente, anche se privi delle leve soggette alla chiamata militare immediata, facendo presente alla Federazione che i campionati di seconda categoria si stavano ancora giocando. Ma l’attesa marcia indietro della FIGC non arrivò. Il titolo di campione d’Italia 1914/1915 verrà assegnato al Genoa solo nel 1921 in quanto primo classificato del girone finale del nord al momento della sospensione, decisione che esclude di fatto il calcio del sud alla luce della palese disparità tecnica.
Mentre si compie con successo la rifondazione sportiva del Genoa, l’allora città di Sampierdarena da più di sei anni lontana dal “calcio che conta” torna fra le iscritte alla Federazione. Lo fa nel 1910 con il redivivo FB Liguria che partecipa alla Seconda Categoria (oltre al campionato italiano riservato alle solite note del triangolo industriale Torino e Piemonte – Milano – Genova, la FIGC appoggiandosi ai comitati regionali organizzava la Seconda e la Terza Categoria) e poi, sia nel 1913 che nel 1914 arriverà a giocarsi il girone ligure-piemontese del campionato italiano accanto a Genoa e Doria (girone terminato entrambi gli anni all’ultimo posto). Il 20 dicembre 1911, invece, l’assemblea dei soci della Società Ginnastica Sampierdarenese delibera l’autonomia della sezione calcio dalla casa madre. Fra i primi dirigenti spicca la figura di Luigi Cornetto, figlio di Giuseppe fra i padri fondatori della Società Ginnastica nel 1891, che legherà il suo nome alla storia rossonera fino alla fusione con l’Andrea Doria che porterà nel 1946 alla nascita della Sampdoria (vai all’articolo). In questo breve periodo pre bellico la Sampiardarenese riappare solo nel 1914/1915 e sfiorerà l’accesso al massimo campionato prima della sospensione del 1915.
Vai all’articolo successivo della “Storia del calcio a Genova”