Quando ancora non si chiamava “movida”: Genova di notte

Divertimento, Osterie, Gioco d'Azzardo, Cicisbei e Prostituzione...
Illustrazione di Nicoletta Mignone – Testo di Adriana Morando

Lentamente scende la sera sul mare tranquillo e, quasi furtiva, raggiunge le antiche pietre incuneandosi, buia, fra intricati caruggi ovattati di mistero: è un solo breve respiro di pace. Poi i “signori” della notte calano chiassosi, come mille rivoli, per raggiungere i luoghi più “in” della notte della Superba. Oggi qualcuno l’ha chiamata “movida”, una folla gioiosa di giovani (e meno giovani) che alimenta il ben noto mugugno infastidito dalle musiche troppo alte e dal vociare esuberante. Ma com’era la notte a Genova tanti anni fa? Torniamo indietro nel tempo per provare a immaginare la vita notturna genovese “quando ancora non si chiamava movida”
Iniziamo con una doverosa considerazione: fino all’arrivo del gas, nel 1880, l’illuminazione pubblica, che riguardava solo le vie principali, era affidata alla fioca luce di lumi ad olio (se ne contavano, nel 1860, solo 9 dalla Lanterna fino a Piazza Annunziata) mentre, appena fuori dalle mura, a Cornigliano come ad Albaro, ancora nel 1890 regnava il buio… (fa sorridere oggi pensare che quando arrivò l’illuminazione a Cornigliano sul finire del secolo un decreto imponeva che le luci venissero accese solo nelle notti non illuminate dalla Luna…).
Il buio pesto, quindi, non aiutava certo le scorribande notturne… inoltre, ancora sino alla prima metà dell’800, il carattere comune della vita cittadina (borghese e contadina) era costituito in prevalenza dalle quattro mura della bottega o della casa e l’acquisto del cappone per il pranzo di Natale era uno dei principali avvenimenti dell’anno. Giovanni Ansaldo in un articolo del 1933 scriveva: “L’intensità gelosa della vita famigliare toglieva voglia di mettere il naso fuori di casa; la famiglia era un mondo conchiuso in se stesso e all’infuori di essa non si sentiva nessun altro legame sociale”. Eppure nei secoli non sono mai mancate le eccezioni…

IL GIOCO D’AZZARDO

Per tutto il medioevo e sino al XVII secolo compreso, il gioco d’azzardo era l’attività notturna più in voga sia per i nobili che per il popolo. I primi, più fortunati, per tenersi lontani dall’insidia delle strade, si riunivano in casa di parenti o amici dove animavano le sere con cene pantagrueliche alle quali le autorità, nella persona del Doge e del Cardinale Paolo Fregoso, dovettero mettere un freno con un decreto (1494) che ne limitasse lo sfarzo: fu proibito, ad esempio, consumare volatili pregiati, come pavoni e fagiani, o dorare le vivande, procedura che fu riservata solo al Doge. Per il popolino l’unica alternativa era ritrovarsi nei piccoli tuguri maleodoranti delle osterie dove, tra una libagione e l’altra, si scommetteva e si giocava d’azzardo, alle carte, alla morra, alla zara (particolare gioco di dadi), senza disdegnare di “puntare” sugli argomenti più disparati, persino, sul sesso di un futuro nascituro. Dal ‘600 prese campo il biribisso, l’antenato della roulette; i popolani più coraggiosi, sfidando il buio, si radunavano sotto umidi voltini o sui gradini di marmo delle chiese di Prè, e puntavano alla fioca luce di tremolanti lanterne. Questa febbre contagiosa, che non risparmiò né poveri né ricchi, finì per entrare prepotentemente anche nella vita organizzativa della città quando, dal 1576, per costringere gli agiati patrizi ad ospitare visitatori illustri, si ricorse all’estrazione dei “rolli”. In modo non dissimile, nacque il “gioco del seminario”(1617)”, antenato del gioco del lotto (1643), con cui si cercava di indovinare i nomi dei 5 senatori che avrebbero fatto parte dei “Serenissimi Collegi” della città, nei successivi 6 mesi.

LE SIGNORINE DI STRADA

Chi cercava intrattenimenti più “piccanti” nella Zena storica vi trovava il Paradiso: liberale e “libertina” per tutto ciò che produceva denaro, la prostituzione non solo era tollerata ma anche ”incentivata”. Già dal 1375, infatti, ogni “signorina” doveva versare al Podestà 5 soldi giornalieri per poter esercitare la “professione”, soldi che venivano, poi, impiegati per finanziare l’ampliamento del porto e dal 1452 il Doge Pietro II Fregoso imponeva il divieto di “molestare le donne pubbliche in luogo pubblico”, pena una salata ”indignazione pecuniaria” (multa) e due giorni di carcere. Emblematico è, poi, l’escamotage ideato dal giovane Giovanni Andrea Doria, figlio del più nobile Andrea Doria, “pater patriae”, che per guadagnare senza pagare dazio, alla fine del ‘500, acquistò una galea battente bandiera spagnola che ormeggiò in darsena. In questa “nicchia” protetta dalla extraterritorialità, impiantò un bel bordello galleggiante che ebbe, ovviamente, un enorme successo e che fu chiuso solo nel 1716 dietro un congruo esborso di denaro che il Doge Lorenzo Centurione dovette spendere per l’acquisto della nave.

ALTRO CHE ORDINANZE “ANTI ALCOOL”…

Come detto, le fiaccole appese sulle porte di nobili casate non erano sufficienti a rendere sicuro il dedalo dei vicoli medievali. Tra il 1506 e il 1507, nella zona Banchi, Ponte Reale e San Luca, imperversava una banda di giovani nobilastri che armati di lunghi pugnali, sottili come spilloni e con incisa la scritta ”castiga villani”, si divertiva a colpire i malcapitati passanti, sui fianchi e sul lato ”B” o li faceva saltare su una coperta tesa, “facendo volte in aria a guisa di nottole”. La situazione non migliorò neppure negli anni successivi perché i giovani, non potendo essere “introdotti nel governo fino all’età matura”, sfogavano la loro insoddisfazione in atteggiamenti sfrontati ed irresponsabili a tal punto che, nel 1607, era stato necessario emanare la “legge dei biglietti” con la quale il “discolaccio” di turno veniva bandito dalla città, lo stesso che, scontata la giusta pena e in tempi più consoni, entrava di diritto nel governo della città. Ciò non fu sufficiente a rendere le strade più sicure perché, ancora alla metà del settecento, troviamo bande di mariuoli, spesso in contrapposizione tra loro, come quella di Marco Lomellini e Girolamo Rivarola da una parte e Giuliano Spinola dall’altra, che si scambiavano sonori ceffoni e dure legnate per le “danseuses” del vicino teatro di Sant’Agostino. Per non parlare di Ettore Doria che con la sua combriccola di masnadieri depredava, senza ritegno, casolari e chiese. Erano, poi, così frequenti le sassaiole, tra “Chiappellanti” e “Lazzarini” contro i loro vicini di San Teodoro e della Salita di Gesù Maria, che fu necessario emanare il “coprifuoco” con la chiusura tassativa di osterie, bettole e taverne.

LE MODE: IL BRODO NOTTURNO E IL CIOCCOLATO

Se “l’amor profano” non era sufficiente ad appagare i peccatori della notte ci pensava una tazza bollente di brodo di trippa o sbira, un piatto tipico di Genova che risale al 1479 e che prende il nome dei suoi primi estimatore, le guardie carcerarie della Grimaldina di Palazzo Ducale. I gendarmi, uscendo dall’oratorio di Sant’Antonio (detto dei Birri) per le loro ronde notturne, cercavano conforto, contro la gelida tramontana, alla sera tardi o al mattino presto, in una scodella della fumante bevanda e se, poi, l’oste vi aggiungeva una patata, croste di pane o le stesse trippe, tanto di guadagnato. Nel medioevo era anche l’ultimo pasto del condannato a morte accompagnato da pane brustolito e formaggio grattugiato o dei portuali che si ritrovavano in antiche tripperie non dissimili da quella storica di vico Casana o della Tripperia Ridella (purtroppo chiusa) di via Prè. Grazie, poi, all’intraprendenza del proprietario di una nuova bottega in Piazza Banchi, quella del brodo di trippa divenne una mania collettiva: dame, cavalieri, mercanti, soldati ne facevano grande uso finchè nel 1708 le autorità ne decretarono il divieto di vendita insieme al altre bevande calde o fredde ad eccezione di vino, caffè e cioccolata. Perché? Per denaro, naturalmente, perché sui prodotti importati si pagavano sonanti gabelle!

Fu Cristoforo Colombo ad importare in Europa i semi di cacao; solo una curiosità botanica finché Hernan Cortés non ebbe modo di assaggiare una bevanda fredda (chiamata xocotlatl) a base di semi macinati, miele, vaniglia e spezie. Intuita la possibilità di guadagno, i genovesi ne divennero veri maestri tanto da organizzarsi in “Arte” con statuto e dando il nome alla strada del loro primo insediamento, vico del Cioccolatte (tra Piazza del Carmine e Salita Carbonara). Indispensabile per una raffinata colazione, immancabile prima di un incontro amoroso perché ritenuta afrodisiaca, consumata a tarda sera per conciliare il sonno, la troviamo calda e fumante accompagnata da gustosi biscottini anche sulle alture della città dove cavalieri e dame aspettavano il corteo che lungo la Salita dell’Agonia, oggi Salita Emanuele Cavalli, accompagnava i condannati a morte alla fortezza del Castellaccio.

GENOVA NOTTE E SANGUE BLU…

Nel ‘700, allontanato il ricordo della terribile pestilenza del secolo precedente, accantonati gli ingombranti parrucconi dai folti boccoli, dismessi gli abiti scuri e le fastidiose gorgiere, le donne divennero le protagoniste della movida cittadina. Nascono i cosiddetti salotti di conversazione che si protraggono fino notte inoltrata, a cui fanno capo giovani aristocratiche genovesi e i loro immancabili cicisbei.

Sono questi ultimi un’invenzione tutta genovese, accompagnatori di dame maritate ma pur sempre buongustaie, una pratica che fece scandalo fuori dai confini della Superba. I cicisbei devono il loro nome al “ci-ci”, chiacchiericcio, con cui si trattava di moda, di affari e di politica. Spesso era lo stesso marito, felice e cornuto, a scegliere il cicisbeo per la moglie… Per evitare, infatti, che i nobili sfaccendati (ricordiamo che non potevano entrare fino ad una certa età nella vita di governo) non si dedicassero a “sfrontate licenze”, si preferiva occuparli come cavalieri serventi di nobili dame, col compito di accompagnarle ed esaudire ogni loro capriccio. Il ‘700, come detto, è caratterizzato da un’intensa vita salottiera, fatta di visite, di frequentazioni, di carrozze, di lacchè, di biglietti segreti, di alcove misteriose, di boudoir impudichi ma anche di intrighi politici e di affari che le giovani aristocratiche concludono meglio degli stessi consorti. Tra i salotti più esclusivi primeggiano quelli di Battinetta Durazzo e Livietta Pallavicini che si contendono l’attenzione della movida genovese, organizzando cene, a teatro e in villa, cui seguivano letture forbite o “innovative” come quelle di François Arouet (Voltaire) e di Charles de Montesquieu e in cui non poteva mancare il sorbetto al limone, che dalle nostre parti svolgeva una funzione analoga al te in Inghilterra, una moda talmente famosa da essere esportat dal gelataio Corrazza fino alle Tuileries parigine. Grande risonanza avevano le “quaranta veglie” che si tenevano, ciclicamente, a turno, presso i palazzi nobiliari: Lilla Doria era quella che riceveva con più frequenza nel suo palazzo di San Matteo ed erano memorabili le sue partite a Cavagnola; la cioccolata con vaniglia era, invece, una leccornia di casa Spinola di Pellicceria, mentre Teresa Gentile Doria era la dama dei “limoni” (sorbetti) e della “neve” (probabilmente cioccolata fredda).

LE DANZE

Il refolo di aria francese che diffondeva le nuove idee rivoluzionarie contagiava ogni ceto sociale, dai borghesi che imitavano i nobili agghindandosi con un’inutile spadino, al popolo che riversava nel ballo il suo desiderio di evasione: non si danzava solo nelle sfarzose dimore patrizie ma si volteggiava per le strade, nelle piazze, sul molo, sul sagrato delle chiese, nelle taverne. Verso la fine ‘700 ed inizio ‘800 è il walzer, originato dal Landler (danza montana tirolese), a turbare le notti genovesi, reo di esprimere passioni ed emozioni attraverso l’intimo abbraccio dei ballerini…

TEATRI & CAFFE’

Ma la movida conquista anche altri spazi: grazie allo sviluppo drammaturgico, il teatro lascia le strade e le piazze dove era nato e si trasferisce in sedi fisse, costruite per la “lungimiranza” (ovviamente economica) di una famiglia genovese, i Durazzo, che ottengono, anche, un’ordinanza per l’esclusività. Accanto al teatro Falcone (1652) di via Balbi (incorporato nel Palazzo Reale, primo teatro pubblico genovese e uno dei primi in Italia si pregiò nel 1736 della presenza di Carlo Goldoni), nascono Il Teatro di Sant’Agostino (1702), che poi cambierà il nome in Nazionale, e quello delle Vigne. Raffinati e più orientati sul melodramma i primi due, più polare l’ultimo che era nato nei locali di una precedente osteria aperta a spettacoli, in cui si prediligeva la prosa, le evoluzioni dei saltimbanchi o le recite di burattini. Quest’ultimo era frequentato da gente della peggiore risma che, spesso, trasformava i palchi in bische per il gioco dell’oca e il biribisso. Particolarità di quei primi anni di spettacoli: i teatri non si aprivano mai contemporaneamente, ma “due anni l’uno e due anni l’altro” perché non vi fosse concorrenza; inoltre i palchi venivano ”comprati” dai più facoltosi, tanto che il proprietario poteva arredarlo a suo gusto e usarlo anche per cenarvi. Non accontentandosi di cibi freddi, i servitori dovevano portare il fuoco a teatro in appositi scaldini (abitudine assai contestata dopo l’incendio di palazzo Ducale del 1777). Frequenti erano, anche, le diatribe sulle qualità delle rappresentazioni che spesso finivano a schiaffoni tra il divertimento generale… si ricorda che al Falcone fu addirittura necessario collocare un ufficiale sul palcoscenico per mantenere l’ordine! Solo nell’800, però, superato “l’empasse” Durazzo, il teatro diventerà il cuore della movida genovese.

Nasce il Carlo Felice (1828) per espressa volontà del re sabaudo perché, come dicevano i romani, panem et circensens, ovvero se ti diverti non pensi a congiurare… Quattro anni più tardi ecco il Politeama Genovese (che ai tempi si chiamava Diurno), un grande anfiteatro all’aperto adibito a spettacoli del circo e che sarà trasformato in struttura chiusa solo nel 1871. Sfrattata la compagnia d’avanguardia di quel tempo, questa aveva trovato una nuova sede accanto all’Acquasola in un famoso caffè-concerto, Il Giardino d’Italia, trasformato durante la guerra in Teatro del Soldato e del dopolavorista. Non vi è invece più traccia del Teatro Colombo di via Vernazza o del teatro Apollo nella contrada dei Lanaioli, spazzato via per far posto a Piazza Dante, così come l’Universale (1838), un pezzo di storia della nostra città, o il piccolo teatro dei Postelegrafonici vicino a Piazza Dante. Stessa sorte per il Teatro Margherita (1853) o meglio Andrea Doria come si chiamava in origine o del più giovane Teatro Verdi (1902), famoso per i suoi “variété”.

A ponente era attivissimo il Modena di Sanpierdarena voluto in risposta a quelli della “capitale”. A levante, sulla sponda sinistra del Bisagno, Borgo Pila (dove ora sorge Corte Lambruschini…) aveva ancora un aspetto campagnolo e i centri della movida locare erano l’emporio dell’olio di tal Baciccia, che faceva farinate leggendarie, e la trattoria dei Cipressi ubicata dove, nel 1930, verrà costruito l’Augustus. Questo, col piccolo Teatro della Gil (via Cesarea), “costituiva la più significativa realizzazione legata allo spettacolo-teatro dell’era fascista”. In occasione dell’esposizione colombiana del 1892, sulla spianata del Bisagno viene demolito il vecchio teatro Alfieri e se ne costruisce un altro a Carignano (1893) chiamato Arena Politeama Alfieri che ha come convicino, in via Corsica, l’Alcazar di Daniele Chiarella (1892), un monumentale complesso con bagni, piscina, ristorante, caffè-concerto… Così veniva raccontato in un testo dell’epoca: “si entra per un graziosissimo peristiglio di tipo pompeiano…. un salone caffè-chantant di 70 metri per 8 di larghezza…”: insomma il trionfo della movida di fine ‘800!

All’Alcazar fanno da corollario ritrovi esclusivi disseminati lungo la via Giulia (oggi via XX Settembre) come Caffè del Genio, Caffè Italia, Caffè della Filarmonica, Caffè Restaurant “Le Quattro Stagioni” o i ritrovi di Galleria Mazzini dove la famosa birreria Zolezi ospitava celebrità nazionali come Lina Cavalieri e il ristorante dopo-teatro Da Pippo annoverava tra gli avventori Mascagni, Puccini e il comico Musco. Ambiente più raffinato era invece il caffè Roma chiuso negli anni venti del 900: ai tavoli sedevano Luigi Antonio Vassallo (Gandolin), Anton Giulio Barrili e, più tardi, Sbarbaro e Montale…

I primi anni del XX secolo vedono fiorire definitivamente la moda dei caffè. La Birreria Concerto Giuseppe Verdi, aperta ad inizio 900 e dopo pochi mesi trasformata in un frequentatissimo locale di varietà, il Bar pasticceria Capurro (1910) che dopo i locali in via Corsica e via Balbi ne aprirà uno esclusivo in Piazza De Ferrari (1936), il Gran Caffè Centrale divenuto poi cinematografo, il Gran Caffè Borsa di Fanny Salvetti Bardi dove si organizzavano incontri e conferenze e che, nel dopoguerra (1958-1960) ospitò la Borsa di Arlecchino (spettacoli di avanguardia), il Gran Salone Cabaret “Belloni”, il Gran Caffè Concerto Olimpia divenuto “Caffè- chantant” nel 1922, il Melofono dove si poteva sentire la musica in appositi separé con un sistema simile ai futuri jukebox.

IL CINEMA

Sul finir del secolo un nuovo motivo di aggregazione viene offerto da una strabiliante invenzione: il cinema. E’ del 1896 un articolo che parla della prima proiezione di “una fotografia animata” proiettata nella sala Sivori con tanto di luminare, Prof.Domenico Benucci, a “dare spiegazione scientifica del meraviglioso apparecchio”. Ma è nei primi ventanni del 900 che il cinema conquista nuovi spazi: il Gran Salone Liguria Cinematografo Moderno fu con il Dionisio ed il Massimo uno dei primi della città a cui seguirono il Cinematografo Regina Elena, Cinematografo Borsa, il Rex, l’Universale che fino al 1938 era il noto Ristorante Cairo e il Grattacielo, nell’omonima struttura inaugurata l’8 aprile 1939.

Percorsi e Video guide

Genova Quinto, veduta dal civico 3 di via Gianelli

Cosa vedere a Genova

Piazza De Ferrari

Cosa fare la sera

Foto di Daniele Orlandi
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