Incancellabile e intramontabile nella storia dei primi piatti genovesi, e di tutta la cucina ligure, è il condimento per eccellenza, ovviamente il pesto. Nato da un impasto di semi oleosi, pinoli, noci e formaggio acidulo, trova la sua veste definitiva all’inizio del XIX secolo, con l’uso dell’olio, del basilico e del pecorino. Questo sugo, famoso nel mondo, consegue un mirabile sposalizio con le trofie(gnocchi) il cui nome sembra derivare da “strufuggiâ” (atto dell’impastare) e la cui culla, si dice, essere stata Sori.
Rimanendo nel mondo della pasta, non si possono dimenticare i “pansotti” anche se sono giovani, giovani. Il loro debutto ufficiale pare essere il 18 maggio 1961, quando sul secolo XIX compare un articolo dal titolo: “Pansotti che cibo curioso”. L’articolo dettava le rigide leggi del ripieno: cinque erbe selvatiche, delle quali quella indispensabile è la boraggine, rigorosamente colte, al mattino, sui sentieri del monte di Portofino, amalgamate fino ad ottenere un impasto meglio noto col nome di “prebuggiùn”.
Cugini prossimi sono i ravioli, fagotti di pasta ripieni di carne o verdura, che già deliziavano i palati dei Babilonesi, il cui nome sembra, però, da imputarsi ad una famiglia di ristoratori di Gavi (Raviolo) del XII secolo.
La farinata, cotta nel tian, teglia rotonda in ferro battuto, racconta di un fatto che, secondo la leggenda, avvenne su alcune galee genovesi, cariche di prigionieri pisani. Durante una tempesta, alcuni barilotti d’olio e dei sacchi di ceci si rovesciarono e, inzuppandosi di acqua salata, crearono una nauseabonda poltiglia, la quale fu resa mangiabile lasciandola essiccare al sole. Di qui lo spunto di usare un simile composto, cotto doverosamente al forno e che, a beffa degli sconfitti, venne chiamata ‘l’oro di Pisa’.
Chiamata inizialmente “maniccia” o nel ponente “travelle”, bisogna armarsi di pazienza per gustare la “sorella della farinata”, la panissa: la farina di ceci, in questo caso, viene bollita per almeno un’ora, la si deve mescolare in continuazione; si mangia fredda condita con olio extravergine di oliva e, volendo, un goccio di aceto, una spruzzata di pepe e tante cipolline .
Di origine araba, invece, i cuculli (coccoli) prendono il nome, forse, dalla forma che ricorda i bozzoli del baco da seta: serviti con l’aperitivo o gustati avvolti nella peppià, (nome genovese della carta per alimenti) si presentano come veri, irresistibili, peccati di gola.
Nel tentativo di migliorare la qualità del pane che, per via dell’aria salmastra di Genova è di cattiva lievitazione, compare intorno alla metà del 500 la “focaccia alla genovese” che era e rimane la colazione da gustare con un buon caffè o con un “gotto” di “gianchetto” come era in uso tra le banchine del porto, nei cantieri o tra la popolazione più povera.
Infine non poteva che starci il dolce che porta il nome di un quartiere di Genova, il Lagaccio. I famosi e antichi biscotti furono inventati nel 1593 da un pasticcere con l’intento di “addolcire” le insipide gallette dei marinai. Un nome bieco che nasce dalla presenza di un lago artificiale, dalle acque fangose e torbide, che poi fu prosciugato intorno agli anni ’60.
Ultima, ma solo per citazione, è la cima la cui macchinosa preparazione è parafrasata in una canzone di Fabrizio De Andrè e che, secondo i maligni, è l’emblema della spilorceria dei genovesi: viene spacciata per un piatto di carne, ma carne non è…
Cibi, ingredienti e prelibatezze dell’antichità
Via Sottoripa, l’antica Sottoriva, grazie alla vicinanza con il mare, ancora oggi come nel 1135, quando furono realizzati i portici per salvaguardare le mercanzie, unisce, al brulicare multietnico dei passanti, un rincorrersi di mille effluvi che si sprigionano da piccole ed oscure botteghe. In quei tempi lontani le spezie, incontrastate regine, univano le loro fragranze orientali a quelli del mastice o dell’allume e, in particolare, a quelli della legna bruciata in stufe, su cui si cucinavano cibi ormai caduti in disuso.
Dell’ “agresto”, ad esempio, rimane traccia solo nelle campagne lombarde , si tratta di una salsa acidula che veniva aggiunta alle vivande o alle bevande per insaporirle e che si otteneva dall’uva acerba di luglio, schiacciata e lasciata fermentare al sole per alcuni giorni o bollita fino a ridurla a un terzo della consistenza iniziale.
Oppure il “bramagere“, un intruglio di riso, carni bianche, mandorle e spezie, per trovare la ricetta bisogna sfogliare le pagine ingiallite di un manoscritto del 1300. E’ invece necessario scomodare gli arabi per le “trie”, nome derivato dall’orientale “itryya “ (vermicelli) , che si possono considerare le antenate delle trenette, così come sono arabi i “fidaws” (fedeli) che oggi chiamiamo Fidellini.
I “pesci a scabecciu” erano avanzi di fritture che venivano riciclati previa marinatura con erbe aromatiche e che, in qualche modo, sono legati al detto popolare “ dâ du cù in ta ciappa”: il pescame, infatti, era acquistabile nei pressi di Palazzo S. Giorgio, esposto in bella mostra sulla “Clapa“ (ciappa), lo stesso tipo di pietra sulla quale veniva condannato a sbattere, con violenza, il fondoschiena dei debitori.
Una semplice zuppa fredda di pane era, infine, la “caponada” che si mangiava a bordo delle galee genovesi, il cui nome è un chiaro, irriverente dileggio a un cappone che non c’era.
Di tutti questi antichi sapori oggi è rimasto poco… vengono da altrettanto lontano ad esempio le trippe, lo stoccafisso o il “bianco e nero” e resistono al corso del tempo, anche se trovano sempre meno posto sulle tavole dei genovesi.
Adriana Morando