Portoria: l’antico sestiere e il quartiere di Piccapietra

Il Sestiere di Portoria nel cuore di Genova e l'antico borgo demolito nel dopoguerra. Approfondimento e filmato storico
Piccun Dagghe Cianin“, documentario storico che mostra l’antico quartiere di Portoria durante le operazioni di demolizione

Il sestiere di Portoria è uno dei sei antichi rioni in cui era diviso anticamente il centro storico di Genova. Confina a ovest coi sestieri del Molo e della Maddalena, e a est con quello di San Vincenzo. Sull’etimologia del nome del luogo, la cui collocazione coincide con il moderno quartiere di Piccapietra (anticamente zona così denominata per via del mestiere svolto dai suoi abitanti, scalpellini e tagliapietre), esistono interpretazioni diverse: la più nota è quella che fa risalire il vocabolo alla Porta Aurea, eretta con la seconda cinta muraria cittadina detta del Barbarossa (1155), e così chiamata poiché da questa porta dovevano passare i trionfatori. Un’altra lettura assimila il nome alla presenza in loco di un piccolo antichissimo porto successivamente interrato – il Seno di Giano Troiano – che si insinuava fino a Ponticello (attuale zona di Piazza Dante), e una terza spiega il termine col fatto che fino a qui si estendevano le proprietà dei Doria. Il Seno di Giano costituì la prima insenatura naturale del centro città, citata già dallo storico latino Tito Livio. Il sestiere copriva approssimativamente la zona tra le attuali Piazza De Ferrari, spianata dell’Acquasola, Via XX Settembre fino all’altezza di Corso Podestà e  il colle di Carignano. Naturalmente l’aspetto di questo lembo di territorio è profondamente mutato nei secoli: lo sviluppo economico, demografico e l’avvento di nuove soluzioni urbanistiche hanno inciso molto sulle preesistenze storiche, talvolta cancellandole completamente, talaltra adattandole e modificandole in nome del progresso.

Piazza de Ferrari, già Piazza San Domenico, oggi agorà cittadina ma un tempo slargo secondario (a dimostrazione di questo sta il fatto che Palazzo Ducale vi si affaccia con un’ala e non con l’ingresso principale, che dà su Piazza Matteotti), è l’esempio più eclatante di tali cambiamenti. Nella piazza oggi dedicata al marchese Raffaele De Ferrari, finanziatore di un importantissimo ampliamento portuale nel 1874[1], sorgeva, nel punto in cui ora si trova il Teatro Carlo Felice, la monumentale chiesa – con annesso convento – intitolata appunto a S.Domenico di Guzman, che giunse a Genova nel 1220 e vi soggiornò con i suoi confratelli; del complesso che dava il nome alla piazza non resta che il ricordo, poiché venne interamente demolito quando a partire dagli anni venti dell’Ottocento si presentò la necessità di fare spazio al Teatro e all’Accademia Ligustica (fu così che andarono persi, tra l’altro, gli affreschi che per secoli avevano decorato la chiesa, realizzati dai più celebri artisti genovesi).

Non distante sorgevano fino al Cinquecento due edifici realizzati a partire dal 568, anno della discesa dei Longobardi in Italia: la chiesa dedicata a S.Ambrogio, e il palatium residenza del vescovo milanese rifugiatosi a Genova, dove spostò la sede metropolitana. È proprio in questo sito che sul finire del Cinquecento venne edificata la Chiesa del Gesù – presente ancora oggi – grazie all’ingente contributo del genovese Marcello Pallavicino, nobile gesuita. Il progetto venne ultimato solo alla fine dell’Ottocento, ma intanto la chiesa si era abbellita di opere dei più grandi artisti locali e internazionali, tra cui la celeberrima pala d’altare con la Circoncisione, realizzata da Rubens proprio per Pallavicino nel 1605. Oggi la chiesa è nascosta alla vista dall’edificio originariamente sede della compagnia di bandiera Italia Navigazione (e oggi ospitante gli uffici della Regione)[2].

Nella piazza, anticamente triangolare, era presente, di fronte alla chiesa di S.Domenico, un barchile cinquecentesco: realizzato dai Della Porta in origine per lo slargo antistante la Chiesa del Gesù, era stato smontato e parzialmente riassemblato nel Seicento proprio in piazza S.Domenico, ad esclusione del busto sommitale, raffigurante il dio Giano, inserito invece nella fontana di Via del Campo. Con la demolizione ottocentesca[3] della chiesa domenicana, il barchile venne nuovamente smembrato e spostato in Piazza Marsala, dove si trova ancora oggi, mentre il busto fu trasferito dall’architetto civico G.B. Resasco (progettista di Staglieno) sul chiosco di Piazza Sarzano, dove oggi si trova una copia in luogo dell’originale, restaurato e ricoverato nel Museo di S.Agostino. Al posto dell’antico barchile oggi campeggia al centro di Piazza De Ferrari la fontana realizzata nel 1936 come volontà testamentaria di Giuseppe Piaggio, morto in volo nel ’30. Con la costruzione, negli anni dieci del Novecento, dei palazzi della Borsa e del Credito Italiano la piazza raggiunge il definitivo equilibrio compositivo.

Il Teatro Carlo Felice, voluto dall’omonimo re cui venne poi dedicato, non ha conservato l’aspetto originario: terminato nel 1828 su progetto del Barabino, fu quasi raso al suolo dai bombardamenti alleati durante la Seconda Guerra, che danneggiarono gravemente anche l’edificio dell’Accademia. Del teatro si salvarono solo il pronao in stile neoclassico e i portici esterni: il primo concorso per la ricostruzione fu bandito nel ’46, ma il nuovo edificio, che si adatta alle preesistenze architettoniche, è stato terminato e inaugurato solo nel ’91. Se oggi la zona prospiciente l’ingresso è interamente pedonale, nell’Ottocento vi si trovava il capolinea delle diligenze a cavallo e successivamente i tramways elettrici, i cui binari seguivano il tracciato che ora viene percorso dai bus. La statua di Garibaldi vi fu posta nel 1893, con una grande inaugurazione cui parteciparono importanti personaggi tra cui Francesco Crispi, il generale Canzio e lo scrittore Anton Giulio Barrili, tutti in frac.

In relazione alle sue caratteristiche di principale piazza cittadina, Piazza De Ferrari è luogo di ritrovo dei genovesi, luogo di festeggiamenti ed eventi, punto d’arrivo di manifestazioni e cortei, ma soprattutto è stata, negli anni, teatro di importanti avvenimenti storici. Qui passò in pompa magna Vittorio Emanuele III in visita alla città nel 1922, qui i genovesi ascoltarono l’annuncio dell’entrata in guerra nel ’40, qui sfilarono le forze alleate e partigiane dopo aver liberato la città nel ’45. Qui, nella storia più recente, avvennero i terribili scontri del 30 giugno 1960 che portarono alla caduta del governo Tambroni[4]; infine la piazza si è trovata ad essere cuore pulsante della cosiddetta “zona rossa”, cioè inaccessibile per ragioni di sicurezza, durante il summit G8 del 2001: proprio Palazzo Ducale infatti è il luogo scelto per l’incontro dei “grandi” della Terra.

A pochi metri da Piazza de Ferrari si trovano Via Dante e Piazza Dante. Anch’esse sono il risultato di un’immane operazione di restyling urbano, diviso in due tempi: la parte più vicina a Piazza De Ferrari risale a fine Ottocento, la parte verso la galleria Colombo è invece degli anni trenta del Novecento. In questo caso fu necessario lo sbancamento della collina di S.Andrea (rimandiamo al testo sul sestiere del Molo) con il borgo di Ponticello, che si stagliava dove ora c’è la piazza: in ricordo di ciò che fu è rimasta Porta Soprana, anche detta Porta di S.Andrea appunto, collegata a un residuo delle antiche mura del Barbarossa, ma presente già nella cinta del 935. Racconta l’annalista Caffaro che l’urgenza di edificare mura solide per difendersi da un eventuale attacco del Barbarossa impegnò l’intera popolazione, che con uno sforzo colossale riuscì a portare a termine l’impresa in soli 53 giorni[5]. Poco distante dalla porta ancora esiste quella che è identificata con la dimora di Cristoforo Colombo, nato nel 1451 proprio a Ponticello[6], da genitori lanaioli (qui infatti risiedevano coloro che lavoravano la lana). Per quanto si sia dibattuto a lungo sulle vere origini del navigatore, che è stato definito di volta in volta spagnolo, francese, corso, una cosa è certa: che in tutti i documenti coevi è indicato sempre come genovese, e lui stesso si definisce tale anche nel più importante dei documenti, il suo testamento.

La località di Ponticello conservava il nome che le fu dato in tempi remoti per via di un piccolo ponte, appunto, che passava sul Rivo Torbido, torrente che attraversava il borgo separando il colle di Sarzano da quello di Carignano; prendeva tale denominazione dal colore delle acque, rese scure dal terreno argilloso e dalle attività umane. Il barchile che oggi è in Piazza Campetto si trovava originariamente in Piazza Ponticello, dove anticamente facevano i loro mercati le erbivendole e si incontravano gli uomini d’affari. Qui vennero innalzati nel 1940 i 108 metri del grattacielo Piacentini-Invernizzi (dal nome dei progettisti) che fu il primo e per lungo tempo il più alto d’Italia; al completamento dell’opera di ammodernamento ha concorso la realizzazione del nuovo centro direzionale cittadino, il Centro dei Liguri, realizzato tra gli anni sessanta e ottanta, per far nascere il quale si  sacrificò per sempre un altro rione storico, quello della celebre Via Madre di Dio (dall’omonima chiesa sulla via), che sorgeva proprio sotto il ponte di Carignano  lungo il tracciato del Rivo Torbido, e si snodava quasi parallela a Via Fieschi, partendo da Piazza Ponticello e arrivando fino alla marina. Sotto l’azione delle ruspe finì anche la casa di Niccolò Paganini, nato proprio nei pressi di Via Madre di Dio nel 1782.

L’adiacente Via Fieschi invece era stata aperta solo nel 1868: prima di allora, per salire alla collina dimora dei Fieschi si percorreva una via minore, e fino al ‘500 v’era una maestosa scalinata che conduceva al palazzo della famiglia in Via Lata; fu però tutto atterrato per ordine di Andrea Doria dopo la fallita congiura del 1547[7].

Uno stravolgimento altrettanto profondo che per i luoghi sopra descritti è stato quello che ha condotto, attraverso i secoli, ad avere la Via XX Settembre che conosciamo adesso. In tutte le epoche i lavori che hanno interessato la zona hanno portato alla luce reperti archeologici di epoca preromana che confermano la presenza umana in questi luoghi fin da epoche remote. La storia di questa strada ha origine nel 1628, ordinata dal patrizio Giulio della Torre che voleva una via carrabile che sostituisse la precedente[8]. Da lui il primo nome, via Giulia; all’epoca, si chiamava così solo per metà, diventando poi Via della Consolazione dopo Porta degli Archi (dove ora è il Ponte Monumentale[9]) mentre al termine del tracciato si ergeva Porta Pila. Non aveva un andamento regolare come adesso, ma seguiva la morfologia del terreno: il livellamento del fondo stradale avvenne gradualmente attraverso successivi interventi. Appena nata, via Giulia si dimostrò subito utilissima per il passaggio delle carrozze aristocratiche che andavano verso le residenze di villeggiatura (Marassi, Terralba e Albaro, Sturla, Quarto); l’aumento di traffico portò a successivi allargamenti e miglioramenti che diedero alla via sempre più le caratteristiche di arteria principale, fino ad arrivare al 1897, quando per volontà del sindaco Andrea Podestà si procedette alla realizzazione di Via XX Settembre. Molte furono le polemiche di residenti e negozianti, visto che si dovettero demolire diversi edifici, e ad esse si aggiunsero le proteste dei preti cui fu espropriata la Chiesa del Rimedio: a differenza di S.Domenico, però, questa venne letteralmente smontata e ricostruita pietra per pietra in Piazza Alimonda. La via è una congerie di stili diversi che sottolineano l’eclettismo e il gusto per il revival architettonico in voga all’epoca: tra i vari palazzi il civico 23 è opera del celebre architetto Gino Coppedè. Adiacente il Ponte Monumentale ma sopraelevata rispetto alla via è la Chiesa di S.Stefano, una delle più antiche della città (X secolo), nella quale si presume fu battezzato Colombo[10].

Altre moderne direttrici che si dipartono da De Ferrari sono Via XXV Aprile, già Via Carlo Felice, e Via Roma, previste dal progetto del Barabino e presto divenute luogo di passeggio e negozi eleganti. Non venne fortunatamente demolito lo storico Palazzo Spinola (in fondo a Via Roma), acquisito dalla famiglia nel Seicento e oggi sede della Prefettura. Via Roma[11] fu completata negli anni settanta dell’Ottocento sbancando definitivamente la collina di Piccapietra e ad essa si andò ad aggiungere un elemento che andò presto configurandosi come salotto cittadino: Galleria Mazzini, che ricalcava il fortunato modello francese riproposto in quegli stessi anni nelle maggiori città italiane. Qui l’amministrazione comunale allestì intelligentemente le Poste Centrali, rendendo la galleria particolarmente trafficata, mentre presso i caffè della galleria si riunivano intellettuali, scrittori, giornalisti, artisti; dal 1926 la galleria ospita due volte l’anno la Fiera del Libro[12]. La vicina Piazza Corvetto fu progettata dall’ingegnere Giuseppe Croce, all’epoca assessore comunale. Si noti che, nel giro di pochi metri, si trovano tre sculture dedicate ad altrettanti importanti personaggi: Garibaldi in Piazza De Ferrari, Vittorio Emanuele II a Corvetto e Mazzini di fronte ad esso (sulla collina di Villetta Di Negro).

In tempi molto più antichi, prima che la zona diventasse sofisticato ritrovo, qui vicino cresceva una rigogliosa macchia di vegetazione ribattezzata “Bosco del diavolo”, risalente ancora all’epoca pagana; nella zona dove ora si trova Piazza Corvetto, prima del Mille v’era il Lucus dei pagani, ovvero il bosco sacro (tanto che il nome della vicina Via Luccoli potrebbe derivare proprio da Lucus). Nel ‘500 la boscaglia finì per essere compresa nella cinta muraria, ma per lungo tempo rimase luogo non sicuro: i suoi abitanti infatti avevano fama d’essere contrabbandieri o comunque dediti ad attività illecite, e per di più mettevano in atto tutta una serie di deterrenti per evitare di essere disturbati: di notte spaventavano gli incauti passanti travestendosi da fantasmi, con tanto di lenzuolo, trampoli e zucca vuota in testa, illuminata dall’interno con una candela, oppure legavano dei tacchini con catene in modo che il loro movimento producesse rumori diabolici. La situazione giunse al limite di tolleranza nel Seicento, quando per decreto del Senato il bosco fu dato alle fiamme e al suo posto fu aperta la via chiamata Crosa del diavolo. Per giungere all’aspetto odierno dovette essere ampliata ben due volte, nel 1775 e cent’anni dopo, quando il nome le fu cambiato in Via dell’Ospedale Pammatone. La via costeggia oggi l’edificio del Tribunale, che sorge proprio dove un tempo era l’Ospedale di Pammatone, i resti del cui edificio principale, gravemente mutilato dai bombardamenti della Seconda Guerra, sono stati conservati inglobandoli proprio nella struttura del palazzo del Tribunale, innalzato tra 1966 e 1974.

L’OSPEDALE PAMMATONE

L’origine dell’Ospedale risale a inizio ‘400, quando fu creato grazie all’iniziativa caritatevole del notaio genovese Bartolomeo Bosco: in breve tempo l’istituto divenne il primo ospedale cittadino e, attraverso successivi ampliamenti e aggiornamenti, restò tale fino all’inizio del Novecento, quando venne definitivamente sostituito dal nuovo ospedale di S.Martino.

All’istituto è legata strettamente la figura di Santa Caterina Fieschi Adorno (1447-1510), cui è intitolata ancora oggi la vicina Chiesa dell’Annunziata di Portoria, detta anche – appunto – di S.Caterina, e in cui si trova esposto il corpo della santa, esumato intatto dalla tomba a oltre un anno dalla morte ed esposto da allora in una teca di vetro all’interno della chiesa. Caterina, maritata giovanissima al nobile Giuliano Adorno, mostrò molto presto la sua vocazione mistica, in virtù della quale riuscì a convertire il dissipato marito a una vita rigorosa; dedicò l’intera esistenza alla cura dei malati proprio presso il Pammatone, di cui divenne rettora, ricoprendo così un ruolo che mai prima d’allora era toccato a una donna. A un tempo mistica e dotata di grande senso pratico, fu studiosa e autrice di trattati a tema religioso, ma anche creatrice di un reparto dedicato ai malati di sifilide (malattia che proprio allora cominciava a diffondersi) e instancabile infermiera durante l’epidemia di peste che colpì anche lei: una stampa del tempo la ritrae mentre bacia un’appestata morente. Santificata nel 1737, fu proclamata Patrona degli Ospedali italiani nel 1943.

Il Pammatone annoverava nel suo complesso, oltre alle strutture dedicate specificamente ai malati, un laboratorio chimico, una farmacia, un teatro anatomico, alloggi per il personale di servizio, opere d’arte che arredavano gli spazi, e le cronache registrano l’entusiasmo dei commenti di quegli stranieri che in viaggio a Genova avevano avuto modo di visitare l’ospedale: ordine mirabile, pulizia perfetta, cura estrema sono alcune delle parole di un magistrato francese in visita nel Settecento. L’ultima funzione che la struttura svolse fu quella di sede della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Genova, prima della guerra. Dopo i bombardamenti, tutti i corpi di fabbrica – tranne quello settecentesco oggi inglobato nel Tribunale – vennero interamente demoliti, e con loro il dedalo di vicoli che costituiva il tessuto urbano circostante, per lasciare spazio a quella che divenne, nel tempo, la moderna Piccapietra.

IL BALILLA: LA RIVOLUZIONE DI PORTORIA

Dell’antico aspetto della zona resta oggi solo la piazzetta antistante l’ingresso del Tribunale, dove campeggia il monumento al Balilla, celeberrimo simbolo della cosiddetta “rivoluzione di Portoria”, quando i genovesi si sollevarono contro l’esercito austriaco che occupava la città[13]. L’episodio di cui il Balilla è protagonista e che fece scoppiare la rivolta avvenne il 5 dicembre 1746, allorché un pesante cannone, trascinato da un drappello di soldati, sfondò il manto stradale rimanendo incastrato; i soldati intimarono ai passanti di fornire il proprio aiuto, e poiché questi tentennavano, si avventarono su di essi a colpi di bastone. Quest’ennesimo sopruso fece esplodere la rabbia della popolazione, già esasperata dall’occupazione straniera: armandosi alla bell’e meglio, in cinque giorni di piena rivolta riuscì a cacciare gli austriaci dalla città. Tradizione vuole che il primo sasso sia stato lanciato proprio dal Balilla, al secolo Giovan Battista Perasso, con la nota frase «Che l’inse?» ossia: «Devo cominciare?». La figura del Balilla, come noto, è stata poi ripresa – per le sue caratteristiche di patriottismo e coraggio – in epoca fascista per la propaganda di regime.

LA SPIANATA DELL’ACQUASOLA

Sopra la zona dell’antico ospedale, tra Piazza Corvetto e i resti della seconda cerchia di mura, è la Spianata dell’Acquasola, famosa per i suoi giardini da cui si gode di una splendida vista verso levante. In origine la zona era una collina naturale cui si giungeva tramite una strada costeggiata dal Rio Torbido, il quale, passato per Portoria, proseguiva attraverso Ponticello e il Borgo dei Lanaioli fino al mare.  La via conduceva da Salita S.Caterina direttamente alla Spianata. A Ottocento inoltrato fu interrotta con l’apertura di Via Roma. Il nome Acquasola è di origine incerta ma indubbiamente molto antica: alcuni studiosi evidenziano le radici “Lacca” e “solis”, dove Lacca era una divinità ligure assimilabile alla Giunone dei boschi romana, e qui si estendeva un bosco a lei dedicato (il lucus da cui il nome della non lontana Via Luccoli); altri leggono “Acca solis”, che indicherebbe, in sanscrito, una ninfa madre cui il bosco era dedicato; esiste anche un’interpretazione che fa risalire il nome del luogo al fatto che fosse residenza degli Arcadi Ausoni, popolo di stirpe sciita pelagica giunto a Genova nel 1600 a.C.., mentre ulteriori letture legano il nome alla presenza di rivi e fonti d’acqua nella zona.

I giardini, con la vasca centrale che raccoglie l’acqua di varie sorgenti, fanno parte del progetto di Barabino, ma prima dell’Ottocento l’Acquasola fu dapprima parte del famigerato Bosco del diavolo, poi luogo di scarico dei detriti durante i lavori di costruzione di Strada Nuova (Via Garibaldi), campo d’esercitazione dei balestrieri, sede di botteghe artigiane, fabbriche d’arazzi, fonderie, fossa comune per i morti di peste nel 1656-57. Quando venne realizzata la cinta muraria seicentesca, l’Acquasola perse la funzione difensiva e si prestò perfettamente, data la morfologia, a diventare passeggiata pubblica, talmente bella da essere citata da personaggi come Dickens, Flaubert e Stendhal, in viaggio nel capoluogo ligure. Nell’Ottocento il luogo era tanto rinomato da essere preso a modello in Russia, a Mosca, per un parco simile anche nel nome. Dopo aver perso progressivamente importanza nel corso del Novecento, oggi attende di essere portato a nuovo splendore, dopo l’apertura di un contestatissimo cantiere – tuttora in essere – che dovrebbe portare alla creazione di un parcheggio sotterraneo e al restyling del parco.

 Claudia Baghino


[1] Il marchese (1803-1876) proveniva da una facoltosa famiglia di banchieri nota per la parsimonia. Verso la fine della sua vita divenne però eccezionalmente generoso e donò venti milioni in oro nel 1874 per la costruzione di due nuovi moli portuali, dopo aver constatato che il porto genovese era inferiore a quello marsigliese.

[2] Edificio realizzato dall’ing. Cesare Gamba.

[3] Con la Restaurazione del 1815 la Repubblica di Genova finisce sotto il dominio dei suoi nemici secolari, i Savoia. Vittorio Emanuele I prende possesso della città il 7 gennaio 1815, annettendola al regno sabaudo. Mentre la classe dirigente genovese si arrocca su posizioni di passivo rifiuto ad integrarsi col nuovo stato, sentito come nemico invasore, l’economia ristagna, appesantita da forti dazi e tasse. Bisogna aspettare gli anni venti dell’800 e re Carlo Felice insieme all’intelligente governatorato di De Geneys, per vedere un cambiamento nell’approccio del regno alla città. Qui si colloca il periodo della grande riorganizzazione urbanistica affidata a Carlo Barabino.

[4] La scelta di Genova, medaglia d’oro della Resistenza, come sede del congresso dell’MSI, venne vissuta come un grave affronto, tanto più quando si sparse la notizia della partecipazione di Carlo Emanuele Basile, già prefetto di Genova in periodo fascista, responsabile della deportazione di centinaia di genovesi, condannato a morte per crimini di guerra e poi graziato. La protesta sfociò negli scontri di Piazza De Ferrari del 30 giugno tra manifestanti e forze dell’ordine. I disordini si propagarono presto nel resto del paese (ci furono anche morti negli scontri) e finirono solo con le dimissioni del governo.

[5] Sforzo rivelatosi non indispensabile, poiché bastarono i legati genovesi inviati all’imperatore per evitare lo scontro. Federico I era sceso in Italia con l’intenzione di riportare all’obbedienza i molti comuni ormai indipendenti di fatto. Genova, che aveva fondato l’autorità comunale nel 1097, fu la prima città cui l’imperatore riconobbe la piena autonomia. Facendo leva sul ruolo antisaraceno che Genova giocava sul mare, gli ambasciatori convinsero il Barbarossa a lasciare completa libertà alla Repubblica, che non dovette sottostare a versamenti tributari: bastò un giuramento di fedeltà. La città ottenne così di poter eleggere i propri consoli e amministrare la giustizia senza ingerenze da parte dell’Impero.

[6] Nel borgo dei lanaioli vissero anche lo scultore Anton Maria Maragliano e il filantropo Giuseppe Garaventa.

[7] La congiura ordita da Gian Luigi Fieschi ai danni di Andrea Doria non riuscì per via di un incidente: i congiurati avevano già conquistato la città nottetempo, quando Gian Luigi scivolò in acqua scendendo dalla galea con cui aveva preso la darsena: nel trambusto del momento nessuno si accorse che la pesante armatura lo stava facendo annegare. Perso il capo, i congiurati smarriti si dispersero velocemente. La punizione di Andrea Doria fu atroce, anche per vendicare la morte dell’amato erede Giannettino, ucciso quella notte: ordinò la morte dei responsabili, bandì i Fieschi dalla città, fece radere al suolo il loro quartiere in Via Lata ed esporre per due mesi il cadavere di Gian Luigi sul molo, dopodiché lo fece gettare al largo senza alcuna esequia.

[8] La linea su cui nasce il tracciato di Via Giulia è quella indicata da Salita S.Matteo, che si allacciava anticamente con lo scomparso Vico del Vento, il quale saliva fino a Piazza S.Domenico per proseguire oltre.

[9] Realizzato dall’ingegnere Cesare Gamba, che progettò anche i portici sotto la Chiesa di S.Stefano, atti a dare una certa continuità visiva al complesso ecclesiastico soprastante.

[10] Vale la pena ricordare che poco distante dal ponte, affacciato sulla via, è lo storico Mercato Orientale, mercato cittadino per antonomasia: con una pianta a cerchi concentrici, esso fu realizzato a fine Ottocento sul chiostro del convento degli Agostiniani (non lontana è la chiesa di Nostra Signora della Consolazione, affidata proprio ai padri Agostiniani) e porta ancora adesso l’impronta dello stile liberty di moda all’epoca. Qui è possibile trovare quasi ogni genere di prodotto, ma il mercato è famoso soprattutto per la varietà degli alimentari, che spaziano dal basilico genovese alla frutta esotica, sempre rispettando un alto standard qualitativo.

[11] Dei negozi che animano la via, due furono aperti da due garibaldini che avevano partecipato all’impresa dei Mille: l’oreficeria di Egisto Sivelli, diciassettenne all’epoca dei fatti e ultimo superstite, e il negozio di arredamento di Alberto Issel, ancora esistente.

[12] Alcuni nomi: Anton Giulio Barrili, Stefano Canzio, Arnaldo Vassallo “Gandolin”, i giornalisti Giuseppe Canepa e Carlo Panseri, e poi Eugenio Montale, Camillo Sbarbaro, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Guido Gozzano, Salvatore Quasimodo.

[13] La presenza degli austriaci in città è legata a una serie di lotte tra la Repubblica e i Savoia per il predominio territoriale. Nel 1713 Genova era riuscita ad acquisire il marchesato di Finale acquistandolo dall’imperatore Carlo VI per quasi due milioni di scudi, senonché nel 1743 la nuova imperatrice, Maria Teresa d’Austria, disconobbe l’acquisizione concedendo il suddetto marchesato ai Savoia, che coltivavano da sempre mire espansionistiche sulla Liguria. In seguito a un simile affronto, la Repubblica cercò aiuti internazionali nei paesi oppositori dell’Impero: Regno di Napoli, Francia, Spagna, firmando con questi un trattato e trovandosi in breve coinvolta in uno scontro di livello europeo che, dopo un inizio favorevole, precipitò velocemente verso la disfatta; Genova assistette al ritiro di tutti i suoi alleati, restando sola contro l’esercito imperiale, che con facilità prese la città. Il comandante dell’esercito austriaco, Antoniotto Botta Adorno (esiliato in giovane età da Genova con la sua famiglia), decretò durissime condizioni di resa: La città dovette pagare all’imperatrice un debito di guerra talmente esoso da mandare in fallimento il Banco di San Giorgio, mentre i soldati facevano razzia in città e indisturbati compivano abusi sulla popolazione.

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